Recensione:
La lunga, ossessiva battaglia di una donna, un inno alla maternità, una storia violentemente umana. Un figlio «rubato» nell’inferno di Sarajevo
Lorenzo Mondo, Tuttolibri - La Stampa
Un inno tenero e violento, implacabile e stravolto, al desiderio di maternità, in cui sembra annidarsi, germinalmente, il sentimento di una più grande speranza. E’ il filo rosso che, superando le divaricazioni indotte da varie circostanze e personaggi, percorre il romanzo di Margaret Mazzantini che si intitola "Venuto al mondo". Tutto comincia con una telefonata che Gemma, la protagonista, riceve da Sarajevo. Un vecchio amico, Gojko, facendo appello a passate complicità, la invita a tornare nella capitale bosniaca. La donna vive a Roma, è sposata con un ufficiale dei carabinieri ed ha un figlio adolescente, Pietro, nato fuori da quel matrimonio. Partirà con lui, vuole fargli conoscere i luoghi in cui il suo vero padre è morto. Questo l’innesco di una storia che libera la piena dei ricordi ma non si esaurisce nella rievocazione del passato, operando attivamente, a piani alterni, sul presente, fino a esibire i clamorosi esiti finali. Due sono i nodi che dobbiamo sciogliere per apprezzare questo romanzo complesso, riguardano Pietro e Sarajevo. Il ragazzo è il risultato di una lunga, ossessiva battaglia di Gemma per avere un figlio. Il suo stesso nome sembra irridere all’incapacità di gemmare e procreare. Non c’è cura che tenga, non valgono i tentativi avvilenti di procurarsi all’estero l’affitto di un utero, mentre risultano inutili le pratiche per una adozione. Passando attraverso qualche soverchio e dilatante indugio nelle fasi della ricerca, arriviamo alla sconsolata conclusione di Gemma: «Invecchierò così, asciutta e sola. Il mio corpo non si sformerà. Non si moltiplicherà. Non ci sarà Dio. Non ci sarà raccolto. Non ci sarà Natale». La sua attesa sarà tuttavia esaudita, in modo travagliatissimo e drammatico, a Sarajevo. Quasi per una sorta di nero miracolo, scaturito dall’inferno. Ma perché Sarajevo? Quale l’occasione che ha portato Gemma in questa città «così anomala, un po’ Istanbul un po’ paesotto di montagna»? Ci è arrivata la prima volta a documentarsi per una tesi universitaria su Ivo Andric, l’autore del Ponte sulla Drina. E’ stata conquistata dalla sua vivacità levantina, dall’allegria un po’ sovreccitata della gente, che si trova a rimescolare, senza apparenti timori, Oriente e Occidente. Là ha conosciuto Diego, un ragazzo genovese che sembra portare con fatica sulle spalle magre un passato di essere randagio. Fa il fotografo e non a caso il suo soggetto prediletto sono le pozzanghere. Frequentano ritrovi di artisti e bohémiens, tra i quali spicca la figura di Gojko, il selvaggio poeta che annega nell’alcol i più foschi presagi. Nasce tra Gemma e Diego una passione possessiva e divorante che li accompagna in Italia, sempre con quel martellìo nella mente di un figlio mancato. Torneranno altre volte a Sarajevo, fino a quando si scopriranno prigionieri di una città assediata e martirizzata dalle milizie serbe. Sono pagine bellissime, cadenzate - tra gli stupri, le uccisioni a sangue freddo, la ferocia inventiva della pulizia etnica - da un orrore intollerabile, dalla morte di ogni pietà. Sarajevo viene assunta chiaramente a simbolico ricettacolo delle efferatezze di un secolo. Ma appare anche funzionale al significato più stretto della narrazione. Il suo ventre reso infetto dalle stragi e dall’odio, sembra riverberare una luce dannata su quello infecondo di Gemma, incrociare destino individuale e destino collettivo. Ma perché Diego, con la sua illimitata devozione, abbandonerà la sua donna? Perché non profitterà della pace ritrovata e morirà solo, dopo un ultimo scatto puntato sulla distesa del mare? Perché lei tornerà in Italia, stretta a un neonato, un figlio «rubato» che è venuto alla luce attraverso avventurose peripezie? Sono interrogativi che si scioglieranno con il viaggio in Bosnia di Gemma e di Pietro e che terranno desta la nostra attenzione fino all’ultima pagina. Basti dire che il figlio si rivelerà il frutto di un tempo disperato, d’un impasto inaudito di innocenza e protervia, come un fiore spuntato tra le macerie. E’ sorprendente come Margaret Mazzantini sappia far germogliare, con mano ferma e pensosa moralità, il seme della speranza dall’affondo nei comportamenti più turpi e disperanti della specie umana. Il suo romanzo, così elaborato nella struttura e nel linguaggio, così tonico sotto la crosta della desolazione, rende onore, nel dilagante abuso della parola scritta, all’arte della narrativa.
Product Description:
Milano, Mondadori, 2012, 8vo brossura con copertina illustrata a colori, pp. 531 (Oscar Grandi Bestsellers) .
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