Recensione:
Avvocati e avvoltoi tra potere e morte. Un thriller incalzante sull’inedita rotta New York Bombay: Dai grandi studi legali della City ai bordelli più malfamati, alle cimiteriali pire del silenzio eterno
Soria Piero, Tuttolibri - La Stampa
Accidenti! Un esordiente ha in mano un plot straordinario, emozionante, del tutto originale, lontano mille miglia da ogni stereotipo. Sa di avere nella penna scrittura e tensione. E nella testa una visione affascinante ed insolita dei fondali su cui mettere in scena la sua spasmodica commedia di potere e morte. Ma - sembra quasi di vederlo mentre si affanna a frugare fin nell’ultimo meandro della fantasia - ha bisogno di un argano perverso a cui appendere il tutto. Un motore diabolico ed indiavolato per far partire la sua scrosciante storia. E cosa fa? Esagera. Si inventa un deus ex machina, nel senso più letterale del termine: nientemeno che un banchiere (il deus) che viaggia su una McLaren di Formula 1 a tre posti (la machina) per le strade della Grande Mela progettando uno spettacolare suicidio che produrrà ben quindici vittime innocenti. Se Philip Jolowicz - è lui l’autore di questo intenso Le torri del silenzio - voleva stupire, c’è riuscito. Ma con un’icona iperbolicamente surreale. Figlia di quegli stessi suoni fantastici evocati dall’irrazionale partita a tennis giocata da Agassi in mezzo al traffico di Brooklyn o dagli spot metropolitani di Hakkinen e Schumacher guizzanti tra pedoni e marciapiedi. Poche pagine, le iniziali. Che tuttavia scostano un incipit sopra le righe dall’energia emotiva - e dalla compatta logica - della vicenda che invece ne segue. Un piccolo peccato di gioventù, dunque. Ma potenzialmente pericoloso. Perché il lettore può farsi un’idea sbagliata. E portarsi dietro il pregiudizio per tutto il libro. Che, al contrario, è puntuale e spietato nel racconto affascinante di tre società: l’inglese, l’americana e l’indiana. Capita dunque che Fin Border, giovane avvocato distaccato nella sede newyorchese di un prestigioso studio legale britannico, venga svegliato all’alba da J. J. Carlson (il deus di cui sopra, anche lui marionetta nello spietato mondo di Wall Street, un intreccio di pressanti interessi finanziari in sottofondo) ed invitato a partecipare a quel funambolico giro in auto. La ragione vera è però un’altra: il desiderio di J. J. di sistemarlo sul luogo della sua programmata carneficina. Le conseguenze di un disegno tanto assurdo quanto immotivato sono terribili. L’inconsapevole Fin viene infatti inchiodato da tutta una serie di certificati falsi (polizze, prelievi bancari e contratti di leasing) che lo descrivono come unico ed autentico proprietario della McLaren. E che, di conseguenza, lo qualificano quale responsabile morale della strage avendo affidato il «suo» bolide ad un amico pieno di cocaina fino agli occhi. Impossibile dichiarare la propria estraneità: nessuno gli crede. Né il bieco poliziotto affamato di colpevoli, né le assicurazioni che tentano di scaricare sul suo portafoglio l’indennizzo delle vittime, né - soprattutto - il suo capo e padrino Mendip che vede messa in pericolo la gigantesca fusione di cui si sta occupando. A complicare maggiormente la situazione è il fitto intreccio di legami segreti e di subdole interconnessioni che, in un modo o nell’altro, sembrano unire tutti i protagonisti. Anche quelli più laterali. La sola a credere in Fin è l’ex amante di J. J. che gli lancia, assieme ad un improvviso e psicotico innamoramento, un simulacro di salvagente, imponendo la sua presenza in una incresciosa trattativa indiana. Al tavolo di quegli orribili personaggi che, anni prima, avevano assistito - come minimo - colpevolmente inerti alla morte del padre, avvenuta negli osceni e sinistri recinti delle Torri del Silenzio, dove i cadaveri sono spolpati, beccata dopo beccata, dall’ingorda voracità degli avvoltoi. Ovviamente passato e presente finiscono per incrociarsi indelebilmente e diventano il filo conduttore verso un inevitabile finale tanto amaro quanto inatteso. Attraverso però una serie di squarci notevoli: i lampi delle complicità oxfordiane destinate a durare una vita; gli odori speziati dei bordelli indù mescolati ai profumi dei languidi giardini inglesi; le bambine vendute felici perché il vizio è una prigione meno ossessiva della casta; le pire della morte che fiammeggiano nel mare e disperdono in un fil di fumo destini grami; l’arroganza e la protervia senza patria di un contratto d’affari che consuma etica ed umanità a mano a mano che i caratteri diventano più piccoli.
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