Recensione:
Una saga di maniera ben al di sotto dal suo bestseller del 1989. Un mondo senza i pilastri
Soria Piero, Tuttolibri - La Stampa
Quasi millequattrocento pagine, un azzardo per qualsiasi penna. Ken Follett si salva solo perché è un gran raccontiere, un affabulatore scaltro e traboccante mestiere, capace di toccare continuamente le corde giuste del sentimento e della curiosità. Quei tasti cioè in grado di spingere i lettori a chiedersi continuamente: come finirà? E a costringerli quasi ad abbandonarsi a una corrente lenta, sterminata, spesso snervante, in un fiume che scende stancamente a valle, chilometri e chilometri infiniti per vedere il mare, senza un vero gorgo, una corrente traversa, una diga da scavalcare. Persino la peste che a metà del 1300 inonda e tracima a lungo dalle sue sponde appare come una tempesta di maniera, un pathos privo di lampi veri, nient’altro che un tuono brontolante in distanza capace di rendere meccanica persino la sepoltura e la sofferenza di un popolo intero chiuso in villaggi privi di orizzonte, arroccati in se stessi, Londra poco più che un segno geografico sulla carta, una prospettiva politica, ma mai cuore pulsante raggiunto da strade, vene e sentimenti. Mondo senza fine è in sostanza un universo privo di visione, aggrovigliato in un’immensa ragnatela di piccole beghe locali, di amori, di odi, di vendette, di liti e di rivincite che non vanno al di là dei confini striminziti di qualche borgo, di qualche campagna o di qualche foresta più oleografica che reale. Non che la storia non funzioni. Perché, come detto, Follett ha un’abilità quasi mostruosa nel suonare il suo piffero e trascinarsi dietro bande smisurate di topolini-lettori che divorano pile e pile di carta e che lo portano inevitabilmente in cima a ogni classifica. Ma la distanza da I pilastri della terra (in assoluto il suo miglior romanzo) è abissale. Là c’era profondità: l’afflato della storia, il senso del viaggio e della scoperta di terre e di civiltà lontane, la curiosità indomabile del laico al cospetto della divinità e il suo desiderio di elevarsi al cielo con le sue cattedrali per osservare Dio, con stupore, ma dall’alto. Qui, al contrario, gli abissi, i dolori, i piaceri, le tragedie (e ce ne sono in quantità esagerata) sono piatte, solo uno stordimento di immagini che scorrono una dopo l’altra senza quasi incidersi in una memoria presto assuefatta all’ineluttabilità di un destino che per i tre quarti (ben oltre mille pagine) è soltanto foriero di sventura, di ingiustizia, di cattiveria allo stato brado, sia da parte degli uomini che della natura. E che poi in quattro e quattr’otto risistema torti, prepotenze, sopraffazioni, abusi e illegittimità come se nello stesso autore fosse sopraggiunta improvvisa la stanchezza e dunque la volontà di chiudere in fretta i conti secondo la regola romantica che più i buoni sono vessati, maggiore sarà la loro vittoria finale, persino su questa terra. La trama di per sé è esile, giocata su un numero esiguo di personaggi (in rapporto al gigantismo del racconto) tutti costruiti a coppie contrastanti: il buono e il cattivo. Così troviamo l’ottimo Merthin e l’orribile fratello Ralph, l’uno destinato a diventare grande architetto capace di costruire la cattedrale più alta del Regno; l’altro: bieco assassino, stupratore e pozzo di ogni nefandezza. Medesimo equilibrismo d’opposti tra Caris (medico, badessa, perennemente innamorata di Merthin e perennemente divisa tra amore e voti) e la sorella Alice che l’accuserà addirittura di stregoneria. Idem tra la Gwenda servitrice della gleba, sfortunata, afflitta, bistrattata e il fratello Philemon, tanto untuoso quanto doppio che arriverà persino al grado di priore. Il tutto sullo sfondo di Kingsbridge, villaggio di un medioevo di maniera, popolato di osti, tessitori, fabbri, castaldi, suore e preti poco casti, ubriachi e appestati travolti da carestie e da infamità perpetrate da potenti ingordi e spietati.
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Romanzo
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