Recensione:
Incanto. Tra Toscana, Glasgow e New York alla ricerca di sé fra successi e capitomboli. Grossi, in moto corre l’amicizia
Bruno Quaranta, Tuttolibri - La Stampa
Fortunato chi ebbe in sorte un dominio misterioso, un rintocco di Grand Meaulnes. Non sciupandolo, non dissipandolo, se mai gli è capitato di misurarsi con la penna. Ossia non volgendolo in autobiografia. Pietro Grossi, come talismano una terra letteraria quale la Toscana, schietta come i cipressi di Bolgheri, porge il suo Incanto, il suo viaggio à rebours nell’età favolosa che è l’adolescenza, infine riacciuffandola (o scoprendo di non averla mai smarrita) una volta toccata la maturità o la sua sembianza. Dopo Pugni, i racconti dell’esordio, fra i maggiori di questi ultimi decenni; dopo L’acchito, una narrazione talvolta ondivaga, ma sorretta da intenzioni nitide; dopo Martini, un frammento di bijou, ecco questo «nomen omen» Incanto. Che ripropone una voce felicemente insensibile alle sirene sperimentaliste, alle scorciatoie minimaliste, agli anni zero, ai vascelli bruciati dietro le spalle (già Pampaloni li aveva in gran dispitto), alla scuderie generazionali, che non di rado sono un paravento intorno al foglio balbuziente.
Tra un borgo italiano (il protoincanto: «D’estate un sacco di grilli e d’inverno un sacco di alberi spogli»), Glasgow e Manhattan scivola, sfreccia, s’incaponisce, si dispiega Pietro Grossi. Via via, nello specchietto retrovisore, scorgendo Bilenchi, la sua asciuttezza che mai è sbrigatività, Mario Soldati, la freschezza e la sicurezza di America primo amore, la monelleria di Collodi, di una fascinosità tale da contagiare financo i carabinieri («...sono convinto che una bella fetta di loro avrebbe voluto essere al nostro posto»), l’officina di Peppone-Guareschi (in un capanno, «una vecchia motocicletta tutta impolverata, i cui mezzi meccanici, il serbatoio rosso e la sottile sella di pelle correvano sulla stessa linea»). Al capezzale della vecchia Gilera, un gruzzolo di amici, liceali e non, crescono.
C’è l’io narrante, Jacopo Ferri, confortato da una famiglia-ovatta. C’è Greg, giovin, ricco signore, erede di una fortuna annidata nelle viscere peruviane. C’è Paolino, il meccanico supremo, un paio di mani demiurgiche. C’è Biagio, che «per qualche motivo di notte se ne andava sempre in giro». Ci sono le comparse. C’è il personaggio cardinale, la Stradaccia, dove la scapigliata tribù provando, e conducendo al diapason, la ritrovata «due ruote», prova se stessa, individua la pluralità di vocazioni che assomma. E così ciascuno scoprirà il suo solco. Biagio scalerà le classi motociclistiche, sino alla «500», tramontando nell’isola d’Elba, siringa dopo siringa. Jacopo oscillerà, oltre che fra amori e disamori, fra egregi studi matematici e fisici, salendo in cattedra alla Columbia University, «parlando di spaziotempo come se fossero i suoi calzini», assediato dal dubbio-tarlo esistenziale: «A cosa serve?». Paolino coltiverà le radici, non abbandonerà, cioè, il villaggio natale, lasciandosi conquistare dalla fanciulla più ambita, edificando una tradizionale famiglia. Greg, apparendo e scomparendo, investendo e disinvestendo, sorseggiando un drink o incassando un pugno, svetterà come il suggeritore.
Pietro Grossi si muove ariosamente, qua e là raggiungendo l’«incanto». Come Biagio al Mugello, la corsa perfetta, sull’asfalto e sulla pagina all’ultimo palpito: «...aveva passato Doohan in staccata, con la ruota dietro alzata da terra, e all’uscita, non so come ancora in piedi e in pista, aveva spalancato il gas sfruttando ogni centimetro». E poco importa se a Grossi succede di non raggiungere sempre il massimo dei giri (la figura di Greg, per esempio, il Faust che è, lesto a defilarsi, a sottrarsi all’identificazione). Pochi come lui sanno far scorrere i dadi nell’agone, tra i margini, non nascondendosi, non sciorinando giustificazioni. La vita toscanamente intesa come cronaca, come «cronica», giorno dopo giorno, impavidamente, abbracciando «il terrore e la meraviglia del niente».
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