Recensione:
Fois. Una famiglia sarda tra sciagure, patti di sangue, volontà di durare. Il patriarca sfida il destino
Lorenzo Mondo, Tuttolibri - La Stampa
Magari Stirpe, come Marcello Fois intitola il suo romanzo, suona troppo enfatico, ma risponde al sentimento forte che anima quest’altra storia da lui ambientata in Sardegna. Perché Michele Angelo e Mercede, dal loro primo incontro e per l’intera durata della vita di sposi, si sentono quasi posseduti dal compito di generare e tramandare una famiglia. Sono entrambi trovatelli, e sembrano volersi risarcire del loro passato oscuro: non inventandosi, come farà il figlio più colto, antenati illustri venuti di Spagna, ma costruendo e proiettando in avanti, come se si trovassero all’inizio del mondo, la loro genealogia. Questo processo avviene in consonanza con le trasformazioni di Nuoro, che da luogo informe di pastori e commercianti diventa città, esibendo sulla strada principale le abitazioni borghesi, adorne di graziose ringhiere: a beneficio di Michele Angelo, che è diventato un fabbro provetto. «In quel fazzoletto di terra - annota Fois - passa una storia minuscola che è il frutto, quasi la conseguenza di una storia grandissima». Prospera di beni e di figliolanza, la famiglia Chironi suscita l’invidia dei vicini e la malignità della sorte. A cominciare dai due gemellini, primi frutti del matrimonio, che vengono misteriosamente fatti a pezzi e abbandonati in un cespuglio. Essi sembrano rivivere nello straordinario affetto che unirà i fratelli Luigi Ippolito e Gavino, pur così diversi: l’uno spinto dal patriottismo a precipitarsi nel vortice insano della prima guerra mondiale; l’altro costretto per i suoi ideali socialisti, e dopo crudeli persecuzioni, a perdersi nell’esilio. Toccherà alla sorella Marianna ubbidire all’etica familiare, rassegnandosi a nozze generatrici con un mediocre e spiantato nobilotto che attende di essere nominato podestà. Ma altre sanguinose sciagure incombono sui Chironi e soltanto alla fine il superstite patriarca otterrà, quasi inebetito, un dono inatteso del destino. Marcello Fois intende con evidenza confrontare le «briciole» dell’epica quotidiana con il cammino rutilante della Storia, nell’ottica di una sardità che paga il suo tributo di fierezza e di coraggio sui fronti delle due guerre mondiali, che estremizza e corrompe nel brigantaggio l’attesa di un riscatto sociale. Ma le pagine meno scontate e davvero persuasive sono quelle più domestiche che raccontano l’irriducibile legame, direi il patto di sangue che corre tra Michele Angelo e Mercede, la loro volontà di durare senza piegarsi alle sventure: «... perché non c’è genia, da che mondo è mondo, che sia nata forte e invincibile se nutrita di lacrime». Un proposito che riguarda il genus ma, per estensione, il bene prezioso, e più generale, della vita. Colpisce ancora una volta, di Fois, la calda aderenza alle storie, ai paesaggi, ai mestieri e agli oggetti che identificano la sua terra. Sembrerebbe, come dimostrano varie altre prove di scrittori affini, che non sia ancora esaurito lo spazio per illustrare e scoprire l’Italia delle regioni (anche nei suoi dialetti che fanno, talora oscuramente, macchia). Piace specialmente il linguaggio denso e scolpito, a patto che non indugi in criptiche astrazioni, che non salga sui trampoli della visionarietà e di improbabili, apocalittici emblemi. Basta al suo meglio, in Stirpe, la storia che ci viene raccontata con una diretta impressività ed esemplarità.
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