È notte, l'orfanotrofio è immerso nel sonno. Tutte le ragazze dormono, tranne una. Si chiama Cecilia, ha sedici anni. Di giorno suona il violino in chiesa, dietro la fitta grata che impedisce ai fedeli di vedere il volto delle giovani musiciste. Di notte si sente perduta nel buio fondale della solitudine più assoluta. Ogni notte Cecilia si alza di nascosto e raggiunge il suo posto segreto: scrive alla persona più intima e più lontana, la madre che l'ha abbandonata. La musica per lei è un'abitudine come tante, un opaco ripetersi di note. Dall'alto del poggiolo sospeso in cui si trova relegata a suonare, pensa "Io non sono affatto sicura che la musica si innalzi, che si elevi. Io credo che la musica cada. Noi la versiamo sulle teste di chi viene ad ascoltarci". Così passa la vita all'Ospedale della Pietà di Venezia, dove le giovani orfane scoprono le sconfinate possibilità dell'arte eppure vivono rinchiuse, strette entro i limiti del decoro e della rigida suddivisione dei ruoli. Ma un giorno le cose cominciano a cambiare, prima impercettibilmente, poi con forza sempre più incontenibile, quando arriva un nuovo compositore e insegnante di violino. È un giovane sacerdote, ha il naso grosso e i capelli colore del rame. Si chiama Antonio Vivaldi. Grazie al rapporto conflittuale con la sua musica, Cecilia troverà una sua strada nella vita, compiendo un gesto inaspettato di autonomia e insubordinazione.
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Nell’orfanotrofio di Antonio Vivaldi il prete rosso salva Cecilia
Sandro Cappelletto, Tuttolibri - La Stampa
«La chiesa risuonava di quel ritmo strano, sgraziato. Era la preghiera del corpo del sacerdote: colpi di tosse e botte sul suo corpo, che si rifiutava di digerire il Signore Dio e trasformarlo in letame». Antonio Vivaldi soffre d'asma, quando serve messa - era anche un prete - gli viene la tosse, non riesce a deglutire l'ostia. Meglio sia esentato dal servizio, meglio dedichi il suo tempo soltanto alla musica. Sono queste immagini, rapide, inquadrate come un fotogramma in primissimo piano, a tenere vivo e spezzato, impaginato in frammenti il romanzo Stabat Mater che il veneziano Tiziano Scarpa dedica a uno dei luoghi pubblici e segreti, conosciuti e sempre seducenti di mistero della sua città. La Pietà, chiesa e palazzo affacciati in riva alla Laguna tra l'Arsenale e San Zaccaria. Per secoli orfanotrofio femminile, poi ospedale attivo fino alla penultima generazione di lagunari. Lì, venivano lasciate «alla ruota» le «pute» che le madri non volevano, non potevano tenere. Lì si insegnava musica, strumento e canto, in modo serio e talvolta eccellente: poteva essere un mestiere utile al futuro di quelle ragazze, quando avrebbero lasciato la Pietà. Lì, fu a lungo «maestro di cappella» Antonio Vivaldi. La madre del titolo non è quella che sotto la croce piange il corpo del figlio; è quella che cerca Cecilia, una «figlia della Pietà» che le scrive, «Signora Madre», senza mai avere risposta. La ragazza, che racconta in prima persona, è molto angosciata, ha frequenti visioni, viene visitata da una testa dai capelli di serpente e dialoga solo con lei, perché «passo la vita in estraneità totale». La musica le piace, suona benissimo: «Perché le donne non compongono musica? Che cosa succederebbe se il mondo venisse invaso dai suoni che accadono dentro l’animo delle donne?». Rispondeva Marguerite Yourcenar quando le si chiedeva se esiste un punto di vista femminile sulla letteratura: «Esiste forse un punto di vista femminile sul teorema dell’ipotenusa?». In un veloce sipario finale, Cecilia, travestita da uomo, fugge dall’Ospedale. Non cerca più sua madre, ma se stessa. Nella nota conclusiva l'autore chiede scusa - assolto, assolto - di alcune incongruenze biografiche e artistiche del proprio racconto; elenca poi i preferiti dischi vivaldiani, trascurando del tutto (e fa bene) le registrazioni storiche, non dimenticando invece interpretazioni più recenti, così innovative e infuocate: «Vivaldi dispiega il suo potenziale solo se lo si esegue almeno con un pizzico della reverenza che viene riservata fin troppo sussiegosamente a Bach». Ma esistono anche dischi di Bach tutt’altro che sussiegosi, pieni di vita e di gioco, di affetto. Infine, Scarpa cita numerosi saggi e romanzi «di cui mi sono servito». Tra questi, lo splendido itinerario, musicale e sociale, di Pier Giuseppe Gillio: L’attività musicale negli Ospedali di Venezia nel Settecento. Però, nemmeno un accenno di sfioro a Lavinia fuggita, il racconto di Anna Banti del 1950. Eppure: Cecilia è come Lavinia, tutte e due sono bravissime musiciste, capaci di offrire spunti a Vivaldi, che copia da loro. Tutte e due scontrose e spavalde, non legano con le altre «figlie della Pietà» e vogliono fuggire da lì, andando verso Oriente, in cerca delle radici e del destino. Tutte e due ci riescono. Prima Lavinia.
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