Recensione:
Sono mesi che sentivo parlare di questo libro, della sua rocambolesca traiettoria editoriale: l’uscita in sordina nella primavera del 2011, un paio di illustri recensioni, le vendite discrete, poi la lenta risalita attraverso Twitter e, oltre un anno dopo, la conquista del primato in classifica. Lo ammetto, ero diffidente: quando ti dicono che un successo è frutto del passaparola, quasi mai ti dicono la verità. Questo però è un signor libro, scritto da J. R. Moehringer – il nome non compare in copertina ma una nota all’interno svela l’arcano – che non è proprio un tizio qualunque, ma il vincitore una decina di anni fa del premio Pulitzer per il giornalismo, poi diventato anche ottimo romanziere (vedi Il bar delle grandi speranze, bellissimo). Grazie a una diabolica consapevolezza di scrittura, Moehringer riesce a calarsi completamente nei panni di Andre Agassi e a scomparire tra le pieghe di una vicenda che si fa subito appassionante, anche per chi non ha mai preso in mano una racchetta. Inizia nelle ore precedenti l’ultimo torneo prima del ritiro, con il nostro eroe che, tenuto in piedi soltanto da iniezioni di cortisone che leniscono dolori terribili alla schiena, rivela con una sincerità disarmante il proprio odio per il tennis, un sentimento oscuro e segreto che nasce a otto anni e non smette mai di bruciare: «Lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. Per quanto voglia fermarmi non ci riesco». E così impariamo a scoprire l’essenza di uno sport solitario, psicologicamente violento e brutale, dove si lotta uno contro l’altro, uccidere o essere uccisi. È qui, dopo appena poche righe, che capisci lo scarto vertiginoso tra Open e una qualunque biografia: quella che vediamo crescere anno dopo anno, torneo dopo torneo, non è una “rockstar del tennis” (la definizione è di un’altra leggenda, John McEnroe), un campione che, sì, tra le altre cose ha avuto soldi, donne, riconoscimenti, milioni di fan pronti a emulare le sue acconciature e il suo abbigliamento improbabile; è soprattutto un uomo che confessa con struggente ironia la propria incapacità di gestire il talento, il peso di un padre mitomane, un’insoddisfazione feroce verso se stesso che diventa giorno dopo giorno micidiale avvelenamento. Il suo è un calvario privato e pubblico, una collezione di sublimi invenzioni e di figuracce clamorose, di match epici e di batoste cocenti, perché «una vittoria non è così piacevole quanto è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente». E, a ben vedere, è la stessa partita che giochiamo tutti.
recensione di "www.bookdetector.com"
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OPEN, la mia storia. Davvero ben tenuto, lievi segni dell'uso e pagine un poco ingiallite (sport) 502 Ottimo (Fine) 3
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