Recensione:
Fred Vargas. Per il suo investigatore una «esagerata» storia di vampiri
Giovanni Bogliolo, Tuttolibri - La Stampa
La formula è quella canonica del poliziesco seriale: un investigatore di forte individualità si trova alle prese con un crimine misterioso e, districandosi tra ostacoli, rivalità e pericoli, ne viene a capo nel modo più imprevedibile per il lettore. A renderla irriconoscibile (e clamorosamente appetibile) nei suoi romanzi, Fred Vargas provvede aumentando a dismisura il dosaggio degli ingredienti, insaporendo il noir coi pimenti del macabro, del gotico, qualche volta perfino del grand-guignol e facendo ricorso, contro ogni regola, al deus ex machina.
Approssimata per eccesso rispetto al cliché è anzitutto la caratterizzazione dell’investigatore. Jean-Baptiste Adamsberg è l’esatto contrario di quello che ci aspetterebbe da un capo dell’Anticrimine: ha una personalità contorta, una vita privata piena di stranezze e di zone d’ombra, un modo divagante e dispersivo di operare, ma possiede una capacità, si direbbe paranormale, di percepire indizi e prove nei dettagli in apparenza più futili e irrilevanti. E anche nella sua squadra, dove più vivo si esprime il conflitto tra il rispetto della prassi investigativa e l’ammirata fiducia nelle «divagazioni erratiche» del capo, le figure ricorrenti - dall’erudito e raziocinante Danglard alla poderosa virago Retancourt, dal candido Estalère all’imprevedibile Veyrenc che per un trauma infantile si esprime solo in versi alessandrini - hanno spesso tratti caricaturali.
Più esagerate ancora sono la natura e le dimensioni dei crimini con cui si deve confrontare: di volta in volta lo abbiamo visto alle prese con degli appestatori che per seminare il panico si servivano di un inconsapevole banditore, con un giudice armato di tridente che tornava a minacciarlo da un passato che pareva sepolto, con un lupo mannaro che sgozzava pecore e ragazze, con una dottoressa che uccideva cervi e vergini per ricavarne il filtro dell’eterna giovinezza. E ogni volta ne è venuto a capo grazie non solo al suo bizzarro genio investigativo ma anche al provvidenziale soccorso di una persona, di un evento o di una notizia che la scrittrice si è presa il gusto di scovare in qualche recesso della Storia oppure la libertà di far sorgere da uno dei tanti buchi neri di cui il passato di Adamsberg sembra un’inesauribile - e a lui stesso sconosciuta - miniera.
Stavolta i misteri in cui s’imbatte sono due: diciassette scarpe, con piede incluso, trovate di fronte al cancello del cimitero londinese di Highgate e un vecchio giornalista assassinato e sminuzzato in quattrocentosessanta pezzi a Garches. E il «nero tunnel» che immancabilmente li accomuna è addirittura una plurisecolare storia di vampiri che porta un Adamsberg sempre più sballottato da forze occulte e da sconvolgenti agnizioni a farsi seppellire vivo in uno sperduto villaggio serbo. Finché non arriverà l’insperata salvezza e il solito dettaglio incongruo (offerto stavolta da soglioline alla Plogoff mangiate in treno e da una gattina aiutata a nascere nel cortile di casa) non fornirà la chiave di tutto l’enigma.
Malgrado le forti tinte e i ripetuti colpi di scena, la tensione accusa qualche calo e lo scioglimento è più macchinoso che geniale. Ma l’improbabile vicenda, che ancora una volta trae linfa da paure ancestrali e incrollabili credenze, è così robustamente costruita da sembrare plausibile, i personaggi, anche i più strambi, sono tratteggiati con perizia, la narrazione è agile, vivace, ricca di riferimenti storici e di risonanze ironiche e la traduzione è di ottimo livello. Quanto basta insomma per non deludere la folta schiera dei fedeli di Fred Vargas.
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