Recensione:
Da molte settimane nella classifica dei libri italiani più venduti, Mancarsi di Diego De Silva pare smentire le fosche cautele sulla invendibilità dei non-romanzi. Sì, perché l’ultimo scritto dell’autore campano è un racconto, di quelli che ci rappresentano i meccanismi di eventi consueti e ordinari come la nascita e la morte. Oppure l’amore, come in questo caso. Mancarsi è un titolo evocativo di due modi di darsi della mancanza: il patire l’assenza dell’altro – per morte o abbandono; l’impossibilità di incontrare o sfiorare l’altro, per effetto di un continuo non prendersi. Irene e Nicola non si conoscono eppure dovrebbero. Reduci da esperienze matrimoniali sofferte – lui vedovo di una moglie che nemmeno amava più; lei sollevata dalla fine di un matrimonio naufragato – frequentano lo stesso bistrot, siedono allo stesso tavolo che è proprio là, davanti al poster di Buster Keaton, dove entrambi sedevano con il proprio coniuge. Mutate le condizioni, continuano a frequentarlo come fino a poco fa, mai però lo stesso giorno, sicché paiono condannati a un estenuante mancato incontro. Circostanza, questa, improvvida perché i due sembrerebbero perfetti l’uno per l’altro, esatti e coincidenti se solo riuscissero a incontrarsi, perlomeno a incrociarsi una buona volta. De Silva è un abile narratore e, riprendendo in parte temi che erano già stati suoi ne La donna di scorta, ci conduce allo scavo delle vite dei due, mostrandoci il dipanarsi lento di angosce e desideri, di ansie e scalpiccii della frustrazione, e il ricetto che può offrire una solitudine sopraggiunta di colpo su esistenze in perpetua attesa di qualcosa, involte in un agire per non agire, come sospese, irrealizzate. Condizione comune, forse la più comune, fra le umane possibilità. Nel risvolto di copertina si legge “De Silva fa un passo di lato, si allontana dalle irresistibili vicende di Vincenzo Malinconico e ci regala una semplice storia d’amore. Semplice per modo di dire, perché la scommessa è tutta qui: nel nascondere la profondità in superficie, nel tratteggiare desideri e dolori, speranze e rovine, con poche parole essenziali, dritte e soprattutto vere”. Un chiarimento non necessario perché talvolta sono proprio le vie minuscole, le piccole e corrose esistenze a darsi entro una misura che da sola rischiara quei frammenti su cui abbiamo puntellato le nostre rovine. Viene da sé che il racconto – quando è in grado di esprimere aporie e non esercizi in funzione di opere maggiori, o pratica venale, o ripiego dovuto all’impraticabilità di altri generi – non è un inciampo ma “la forma più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica e espressiva”, per dirla con Giulio Ferroni. Malgrado ciò, si arriva al racconto come forma di narrazione non misconosciuta soltanto dopo aver pubblicato romanzi che si sono rivelati di successo, e non il contrario. Dal che discende una domanda: che ne sarebbe stato – qui da noi – di uno scrittore di microscopici racconti come Monterroso o di uno come Felisberto Hernandez?
recensione di "www.bookdetector.com".
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