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Il marchio dell'inquisitore - Brossura

 
9788806228682: Il marchio dell'inquisitore
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Nella Roma del Secolo di Ferro, a pochi giorni dall'inizio del XIII giubileo, la danza macabra incisa su un opuscolo di contenuto libertino sembra aver ispirato l'omicidio di un religioso. Sul caso viene chiamato a investigare l'inquisitore Girolamo Svampa, nominato commissarius dagli alti seggi della curia capitolina. Ad aiutarlo, tra ritrovamenti di libelli anonimi e strani avvistamenti di un uomo mascherato, ci sono padre Francesco Capiferro, segretario della Congregazione dell'Indice, e il fedele bravo Cagnolo Alfieri. L'indagine, che porta lo Svampa a scontrarsi con personaggi potenti, si rivela subito delicata e pericolosa: prima che si arrivi alla soluzione del mistero ci saranno altri morti. Porta sul collo, impresso a fuoco, il marchio di un roveto ardente. È razionale come uno scienziato, eppure esperto di demonologia e stregoneria. È scostante, abitudinario, con una patologica avversione per la fugacità del presente; per lui esiste solo la certezza inalterabile di ciò che è già accaduto. Con l'inquisitore Girolamo Svampa, Marcello Simoni inventa una straordinaria figura di detective, qui alle prese con un intricato mistero nella Roma barocca di Urbano VIII. Il cadavere di un uomo incastrato dentro un torchio tipografico. Un investigatore, il cui passato è un mistero perfino per lui, alle prese con intrighi politici, segreti ecclesiastici e vendette private. Una vicenda tesissima ambientata nell'Italia del Seicento, dove la diffusione della stampa sta aprendo le prime crepe nelle mura dell'oscurantismo.

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Marcello Simoni
Il marchio dell’inquisitore
Einaudi
A mio padre, che mi ha insegnato a essere uomo
Et per viam inquisitionis vel investigationis procedendi. PAOLO III, Licet ab initio (12 luglio 1542)
Era un uomo d’azione, quello! Voi gli avevate dimostrato molto bene che un omicidio era l’unica via per riconciliarsi con Dio ed egli vi aveva ciecamente creduto. CYRANO DE BERGERAC, Contre un Jésuite assassin et médisant, 1651
Prologo Roma, via dell’arco Camilliano 18 dicembre 1624 Posò la lanterna sul pavimento cosparso di segatura e xilografie sbiadite, osservando le cinque zampe di legno che salivano fino al pianale intarsiato e poi, sopra di esso, il gioco di travi, corregge e molinelli che davano forma al torchio. Benché fossero in molti a maledire quel genere di ordigno, la Babele da cui si erano propagate le dottrine di mille Lutero e Simon Mago, lui non l’aveva mai inteso uno strumento del diavolo. Eppure era da lì che spuntavano le gambe della vittima, quasi in procinto di essere divorate insieme al resto del corpo. La scena gli rammentò Giona ingoiato dal mostro marino, così come l’aveva scorto anni addietro sulla miniatura di un salterio veneziano. Con la differenza che nulla, in quel frangente, si sarebbe potuto fare per il malcapitato. Il tronco era irrimediabilmente schiacciato dalla platina metallica, sotto la vite del timpano. L’anima già resa al Signore. Fra’ Girolamo Svampa raccolse la lanterna e si portò all’altro capo del torchio. Non era la vista del macabro a scuoterlo, bensì una sensazione remota, familiare, che guidò la sua mano alla base del collo. Forse era stato l’odore dell’inchiostro di galla a risvegliarla, oppure quello ancor più pungente degli oli di cui erano intrise le matrici di bosso. Ormai non importava, pensò. Si trattava soltanto di combatterla, quella sensazione, a costo di ricorrere alla boccetta che celava in una tasca della cappa. Tornò alla bottega, talmente buia da dargli l’impressione di muoversi in una grotta, e avanzò fino alla testa del cadavere. Si trovava oltre il timpano, al limite estremo del pianale, con la punta della barba rivolta verso l’alto e il capo tonsurato posato sul bordo. I lineamenti emersero poco 5 per volta, all’appressarsi del lume, ma appena notò la bocca lo Svampa non si curò d’altro. Guidato da chissà quale follia, qualcuno si era preso la briga di spalancarla fino a slogare l’osso e ostruirla con delle pagine stampate. Non tutte, però, erano finite nella cavità. Molte erano cadute a terra, ai piedi del torchio. Sembravano essere appartenute a uno o più libercoli del medesimo formato e sfascicolati in fretta e furia, in spregio alla carta e alla legatura. Fra’ Girolamo ne raccolse una e, tenendola per un angolo, la esaminò con attenzione. Poi la mostrò al bravo che attendeva in silenzio accanto all’ingresso. Cagnolo, questo il suo nome, sfilò una mano dal mantello e si aggiustò la tesa del feltro. – Per l’amor di Dio, magister, – disse roco. – Sapete bene che non m’intendo né di lettere né d’alfabeti. Lo Svampa si astenne dal replicare. Gettò un’ultima scorsa alle pareti buie, con tanto di commiato al Giona divorato dal torchio, e varcò l’uscio ritrovandosi nel gelo della notte. Sfarfallava nevischio. La carrozza che l’aveva strappato alle sue incombenze serali l’attendeva a venti passi da un arco in rovina, fra un intrico di edifici vetusti dirimpetto al Collegio Romano. Esitò a raggiungerla, restando sotto il lucore della lampada appesa all’esterno della bottega. Ancora una volta provò quel senso di familiarità, che rintuzzò con fastidio. E ancora una volta cercò con le dita alla base del collo, sotto lo scapolare da domenicano. A rovistare in un passato pieno di angosce e di segreti. Due creste di borgognotta emersero dalle ombre, rivelando la presenza dei cavalleggeri in attesa delle sue direttive. Lui li ignorò. E voltatosi verso la soglia da cui era uscito, si rivolse al bravo che indugiava sul ciglio, quasi a guardargli le spalle. – Va’ Cagnolo, – ordinò l’inquisitore. – Cerca in strada. 6 Parte prima La caccia del furetto 7 1. Convento di Santa Maria sopra Minerva 19 dicembre – Conoscevo la vittima, sì. – Padre Francesco Capiferro, Segretario dell’Indice, uscì dalla penombra del colonnato e proseguì sull’erba innevata, nell’aria frizzante del mattino. – Era fra’ Pietro Rebiba, consultore dell’Indice. Lo Svampa osservò la sua sagoma nera stagliarsi sotto un cielo dalle sfumature ferrigne, poi gli andò dietro. Si trovavano in uno dei due chiostri del convento, tra lunette affrescate con la vita di santa Caterina da Siena e un vecchio pozzo su cui zampettavano dei passeri. Tutt’intorno sorgevano fabbricati assai più recenti, eretti al tempo del Concilio di Trento per ospitare schiere di prelati giunti in pellegrinaggio da ogni plaga della cristianità, portando con sé i loro intrighi e le loro ossessioni. L’inquisitore ne percepiva quasi l’eco, un lamento di anime frustrate sotto quella parvenza di quiete. Intra Ecclesiam nulla salus. – Era frate domenicano o gesuita? – chiese, tornando sull’argomento. Capiferro arricciò i baffi lucidi di olio di gelsomino e lo studiò di sottecchi. – Domenicano, naturalmente. Come voi e me. Fra’ Girolamo non l’aveva dato per scontato. La Congregazione dell’Indice, sorella più giovane dell’Inquisizione, stava diventando terreno d’infiltrazione per la Compagnia di Gesù, a dispetto dell’Ordine domenicano che ne deteneva il controllo. L’ennesima guerra sotterranea combattuta nei corridoi di San Pietro, come in ogni chiesa, biblioteca o confraternita pia del mondo. Si limitò ad annuire, per non guastare con una parola di troppo un rapporto ancora sul nascere. Simili fraintendimenti gli capitavano sovente, al punto da avergli fatto guadagnare gli epiteti di insensibile, menagramo e sobillatore. Pur infischiandosene di gran parte del genere umano, era tenuto a portar rispetto verso colui che si fregiava 8 da nove anni del titolo illustre e temutissimo di Segretario dell’Indice. Continuò a fissare gli edifici intorno a sé con la sgradevole sensazione di essere spiato. C’era da domandarsi se Capiferro avesse scelto quel luogo di proposito, per sminuire l’autorità di cui era stato investito. O per sottolineare che, al pari suo, di mastini del Signore sguinzagliati nell’Urbe ce n’erano fin troppi. D’altro canto non percepiva in lui alcuna ostilità. Pareva anzi gioviale, quasi svagato. Perseverò a passeggiargli accanto, lasciandogli l’onere di rompere il silenzio. Non tardò molto dacché il Segretario raccogliesse l’invito. – Prima di addentrarci nel caso Rebiba, – disse senza alcuna remora, – concedetemi di esprimere incertezza su di voi. O meglio, sull’incarico che siete chiamato a svolgere. Fra’ Girolamo inarcò un sopracciglio. – Il Maestro del Sacro Palazzo ha forse tralasciato d’informarvi? – La sua missiva è alquanto vaga, – confessò Capiferro. – Per giunta tutto si è svolto troppo in fretta, nel cuore della notte. Abbiate pazienza, magister, se stento a raccapezzarmi. – Non sono qui per rompervi le uova nel paniere, – volle tranquillizzarlo, curandosi di non sembrare troppo condiscendente. – Ossia, – specificò, – non interferirò... – Al contrario, spero lo facciate! – Con uno slancio cameratesco, Capiferro frugò in una manica della cappa e ne estrasse una pipa di gesso dal lungo cannello, come se ne vedevano pendere sulle barbe di certi marinai e viaggiatori olandesi. – Voi non sapete cosa significhi trascorrere giorni e giorni a leggere resoconti su libelli licenziosi, tutti uguali, i cui vanagloriosi scribacchini fanno cimento del loro misero estro, – sospirò. – Ebbene, dopo mezzo secolo di censure, indagini e ispezioni di dogana, è a questo che si riduce la funzione dell’Indice! Capirete pertanto che il sopraggiungere di un inquisitore foraneo nominato commissarius per indagare su un delitto rappresenti per me un’evasione dalla noia. Fra’ Girolamo non faticò a cogliere nelle sue parole una critica all’Inquisizione Romana, che pur di espandere la propria autorità non si faceva scrupolo di limitare quella dell’Indice. Subodorava però ben altro sotto la sottile ironia del Segretario. Si 9 strinse nelle spalle, evasivo. – Mi è stata conferita una carica alquanto insolita, ve ne do atto. – Insolita è dir poco, caro magister. Se la memoria non m’inganna, ed è assai improbabile che lo faccia, l’ultimo commissarius fu nominato oltre cinquant’anni fa. Da allora, le strutture ordinarie dell’Inquisizione e dell’Indice si sono mostrate più che bastevoli. – Non posso darvi torto. D’altro canto, l’uccisione di Pietro Rebiba esula fin troppo da quanto vostra grazia definisce «ordinario». Al sentir nominare il confratello, Capiferro s’incupì. – Sono al corrente dei particolari, – e prese una boccata di fumo. – È accaduto nel rione Pigna, dico bene? Presso la bottega dello stampatore Alessandro Zannetti. – Ormai la bottega appartiene a moglie e figli, – precisò l’inquisitore, – dacché lo stampatore è deceduto due giorni fa, per malattia. Mentre si consumava il delitto, la famiglia partecipava alla veglia funebre nella chiesa di San Marco, sempre in rione Pigna. – Dunque, nessun testimone? – Nemmeno un servo o un garzone, a quanto pare. Sono stati i familiari dello Zannetti a imbattersi per primi nel cadavere. Rincasando dalle esequie, dopo l’imbrunire, hanno trovato aperto l’ingresso della bottega attigua alla loro abitazione. Pensando a un furto, si sono precipitati all’interno. – Nutrite già dei sospetti? – Sospetti? – gli fece eco lo Svampa con una nota di sarcasmo. Si avvicinò al pozzo, chiedendosi se fosse saggio dar voce a un’opinione che nel corso degli anni gli aveva procurato non pochi contrasti. Del resto il suo peggior difetto era l’orgoglio, insieme al bisogno di rinfacciare costantemente, a chiunque, quanto fosse al di sopra del comune intendimento. – Il sospetto è per definizione una dubitatio incerta, – decretò, – ovvero un abbaglio fondato sull’intolleranza, sull’ottusità e sui luoghi comuni. Una contraddizione in termini, invero, di cui alcuna autorità dovrebbe tener conto se non per proferir scempiaggini. 10 Francesco Capiferro rimase con la pipa sulle labbra, rapito dall’improvviso involarsi dei passeri. – Quindi, – concluse faceto, – oltre a dar del somaro a qualsiasi magister del Sant’Uffizio, gettate alle ortiche le regole sul sospetto e sull’investigatio celebrate da sua santità Paolo III. – Se gli altri son ciechi, – si schermì lo Svampa, – non vedo perché io debba bendarmi gli occhi alla loro stessa guisa. – Non credete quindi nell’infallibilità dell’Ecclesia? – Io credo nelle parole di san Tommaso d’Aquino, secondo cui giudicare in base al sospetto equivale a peccato mortale. Il Segretario sembrò diviso tra l’ammirazione e l’impulso di obiettare. – Ammesso che siate nel giusto, – si limitò a dire, – come intendereste condurre l’indagine? L’inquisitore si appoggiò ai margini della bocca di pietra, attratto dal buio della cisterna. Lo stesso buio scorto nella bottega Zannetti, e che gli si era già ramificato nell’anima. – Attenendomi al metodo del furetto, – rispose. – Ovvero? – Il furetto, – ripeté, quasi avesse espresso un’ovvietà. – Gli antichi cacciatori si servivano di quella bestiola per stanare i conigli, spingendoli così a finire dentro una rete. Ebbene, nel nostro caso la tana del coniglio consiste nell’insieme degli eventi collegati al crimine. Colui che intende assumerne piena coscienza deve addentrarsi in essi come il furetto nel rifugio della preda, al fine di portare alla luce nomi, indizi e moventi. Badate bene, reverendo padre, alludo a fatti oggettivi e inalterabili. Congelati nell’attimo, per così dire. Sulla bocca del Segretario affiorò un sorrisetto scettico. – Sempre che non vogliate far rivoltare nella tomba Bernardo Gui e compagnia bella, dovrete interrogare anche qualche persona. – Le persone sono accidenti necessari, – minimizzò fra’ Girolamo. – Si deve far ricorso a loro, è evidente, ma per quanto mi riguarda ciò avviene sempre con la massima cautela. Con i loro sproloqui, le loro antipatie e i loro pregiudizi, le persone tendono a inquinare i nostri pensieri, a mentire, a distoglierci dalla visione d’insieme. 11 Il più delle volte si rivelano inutili quanto i sospetti. – A volervi prestar ascolto, si direbbe che la verità esista soltanto al di fuori del mondo tangibile. – Del mondo presente, per essere precisi. – Lo Svampa sventolò le mani per allontanare le effusioni di tabacco. Gli odori intensi lo nauseavano, specie dopo il risveglio. – La verità certa risiede soltanto in ciò che è già accaduto, ovvero negli eventi immutabili e permanenti del passato. Si tratta di una dimensione definitiva e assoluta come la parola di Dio. Basterà studiarla, isolandoci dall’imprevedibile fluire che ci circonda, e a condizione che il nostro esame sia stato puntuale riusciremo a svelare il crimine. – Torniamo al crimine, pertanto, – lo invitò Capiferro, avvicinandosi a una panca di pietra ai margini del chiostro. Spazzolò via la neve con un lembo della cappa e si sedette. – Crimine di una barbarie inaudita, senz’ombra di dubbio, benché a prima vista manchevole di un’impronta ereticale che giustifichi l’intervento di un inquisitor commissarius. Fra’ Girolamo rimase in piedi al suo cospetto. – Vi esprimereste in altri termini se conosceste il contenuto delle pagine. – Quelle trovate in bocca alla vittima? – Non solo in bocca. – Lo Svampa ripensò alla scena di quella notte, pungolato dalla sensazione di essersi lasciato sfuggire un elemento fondamentale. – Fortuna ha voluto che uno dei birri chiamati dagli Zannetti fosse in grado di leggere e abbia allertato l’autorità pontificia. Nel giro di poche ore, il Maestro del Sacro Palazzo ha preso atto della situazione e, di comune accordo con le venerabili eminenze dell’Inquisizione, si è rivolto alla mia esperienza. – Ed esattamente, di quale esperienza si tratterebbe? – Lasciate che sia io a porre le domande, – lo tacitò fra’ Girolamo, a rischio di indispettirlo. – Se stanotte ho scelto di prendere alloggio a Santa Maria sopra Minerva, non è stato né per casualità né tantomeno per capriccio. Mi occorre il vostro aiuto. 12 – Ne sono onorato, – ribatté il Segretario, canzoniero. – Mi porterete con voi nella tana del coniglio? – Vi ho scelto per il ruolo che rivestite, – precisò, sorvolando sul tono beffardo. – Fungerete da lente affinché io possa meglio intendere alcuni aspetti del caso. Le mansioni svolte da Pietro Rebiba, per esempio. Francesco Capiferro attese che i rintocchi dell’ora terza rimbalzassero dal campanile della Minerva a ogni bronzo di Roma, riempiendo l’aria ...

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