Ci sono un po' tutti in questo romanzo, di tutte le classi e di tutte le età, e tanti sfondi diversi lontani nel tempo e vicinissimi, e musiche (e ritmi di ogni tipo. Eppure i punti focali della storia possono ridursi a due soltanto: Matteo, un adolescente, e Giulio, un vecchio nei suoi ultimi giorni. Entrambi hanno con gli altri un rapporto viscerale, di amore e di repulsione: li fanno apparire e poi vorrebbero scacciarli, o li scacciano davvero. Ma non giudicano nessuno, accettano tutti così come sono, non si illudono di cambiarli. Per questo è forse più difficile identificarsi con le figure che ci assomigliano di più. Le vite che dovrebbero ricche, nel pieno delle loro possibilità (professionali eccetera) appaiono quasi spente, incolori accanto a Giulio e a Matteo, che scoprono di rappresentare la stessa sensibilità, quella di chi racconta: Matteo, infatti, «stava per entrare nel mondo dei raccontatori di storie». Un mondo fatto anche di spine acuminate, per nulla idilliaco. «E allora forse non c'era qualcosa di blasfemo nell'aver voluto riprendere quella loro tradizione abbandonata, quella narrazione interrotta? Non ci sarebbe stata qualche divinità decisa a punirli? Giorgio van Straten ha scelto di cimentarsi in un lavoro impegnativo, complesso, ed è riuscito a rendere naturale e piacevole il succedersi di diversi piani narrativi. Rispettando una dichiarazione che apre il libro bravo Mordechai, io sono qui che ---------------------------
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