Recensione:
Le ultime 300 pagine de «La regina dei castelli di carta» valgono le 2400 dell’intera trilogia Millennium: grande maestria in quella che in effetti si trasforma in una vera spy story
Soria Piero, Tuttolibri - La Stampa
Qualcuno sussurra sommessamente che La regina dei castelli di carta, ultimo romanzo della trilogia Millennium di Stieg Larsson, sia l’anello debole della catena. Sommessamente, però. Visto che ci troviamo di fronte a uno di quegli autori-mostro che hanno devastato classifiche, vendite e critica con milioni e milioni di copie, tirandosi dietro una importante serie televisiva (coprodotta dall’altro nume tutelare del thriller svedese, Henning Mankell, quello del commissario Wallander per intenderci) e un film per il grande schermo tratto dal suo primo libro (Uomini che odiano le donne) che dovremmo vedere già quest’anno. E invece quel qualcuno ha torto. Perché le ultime trecento pagine dell’immane saga (oltre 2400 in totale) del cocciuto giornalista d’assalto Mikael Blomkvist e della letale ragazzina Lisbeth Salander acquistano un ritmo ed una scrittura così graffiante e coinvolgente da valere - esse sole - la pazienza per aver a lungo fluttuato nell’oceanico polpettone giallo-nero di odio amore e morte sfiorando tutti gli angoli più oscuri e impervi della fiction. Un vero colpo d’ala, quasi che per Larsson tutto ciò che stava prima fosse stato soltanto una sorta di buon rodaggio, visto che nelle sue intenzioni la serie Millennium non doveva fermarsi a tre, ma continuare fino a dieci, con lo scheletro del quattro e del cinque già ben impostato sulla carta. Ma veniamo alla storia. La precedente, La ragazza che giocava col fuoco, si chiudeva con un apocalittico gioco di vendetta e morte. Lisbeth, sepolta viva, riesce a sopravvivere, solo per riceversi un proiettile in testa non prima però di aver semigiustiziato con un’accetta l’orribile padre naturale Alexander Zalachenko, ex spia del Kgb arruolata da un servizio deviato della Säpo, il controspionaggio svedese. Mikael Blomkvist, anche lui sul posto, riesce a tamponarle la ferita con un nastro d’argento per poi venire immediatamente arrestato da un poliziotto di campagna incapace di mettere a fuoco la situazione. La fortuna della Lisander, trasportata in elicottero dalla scena del crimine, è di trovare in ospedale Anders Jonasson, chirurgo dalla mano ferma, che le estrae la pallottola e che non solo la salva, ma la prende anche in simpatia per via di quel lezzo di marcio che le trame intorno a lei incominciano a emanare. Soprattutto a causa dell’avvoltoio Peter Teleborian, lo psichiatra che le svolazza intorno, che ubbidendo alla loggia clandestina del Säpo l’aveva già fatta ricoverare da bambina in manicomio e che ora tenta di ripetere la medesima operazione per evitare pericolosissime rivelazioni al processo a cui inevitabilmente Lisbeth verrà sottoposta. Ed è proprio inseguendo il filo di questa inestricabile trama dei Servizi, leciti e illeciti, che la vicenda si trasforma in una vera e propria spy story ridondante di colpi di scena, di ricatti e controricatti, di eliminazione di testimoni, di hacker’s games al fulmicotone. E di false testimonianze che si concludono davanti a un giudice esterrefatto, in un turbinio di trucchi e di rivelazioni degne di un moderno Perry Mason: è lì che il racconto decolla definitivamente e quasi dispiace che venga a meno il seguito promesso. Mille le storie collaterali naturalmente, ma a tirare i fili, sullo sfondo è sempre un Mikael Blomkvist in gran forma, seppure un po’ più in ombra delle precedenti puntate. Senza nulla togliere all ruolo disperatamente assassino del fratellastro di Lisbeth, Ronald Niedermann, ovvero dell’uomo che non sente il dolore fisico...
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libro usato, buono stato
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