Cresciuto in una comunità ebrea ortodossa nello stato di New York, fra mille divieti e sotto la costante minaccia di un Dio vendicativo ed eternamente arrabbiato, Shalom Auslander ha fatto di tutto per affrancarsi da quell'ambiente e da quelle tradizioni, eppure si ritrova, anche da adulto felicemente sposato e in attesa di un figlio -, a lottare per scrollarsi di dosso la sua ossessione. Perché lui crede, e non può fare a meno di credere, in un Dio personale. E proprio questo è il suo problema: è convinto che Dio ce l'abbia "personalmente" con lui, che sia sempre pronto a rovinargli qualsiasi gioia e a rifilargli qualche fregatura. Con umorismo spietato e rabbia feroce, Auslander ripercorre le tappe di un percorso di formazione a ostacoli: le gare di benedizioni organizzate dai rabbini alle scuole elementari; le prime disastrose esperienze con le ragazze (reali e immaginarie); i due anni trascorsi in una scuola religiosa di Gerusalemme per adolescenti ebrei irrequieti; i mille traslochi insieme alla moglie da una zona all'altra di New York alla ricerca della loro personale Terra Promessa. Sempre disposto a negoziare con Dio e con i suoi "emissari", a barattare una trasgressione con la promessa di rigare dritto in futuro, Auslander cerca di stabilire con l'implacabile avversario una sorta di cessate il fuoco in vista della nascita di suo figlio, perché il bambino possa crescere sano e libero dai sensi di colpa.
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Trasgredire i comandamenti: la rivolta di Shalom, figlio di una famiglia americana molto ortodossa, contro l’ossessione irrisolta che sta Lassù. Che effetto fa prendersi gioco di Dio
Elena Loewenthal, Tuttolibri - La Stampa
Con i dovuti distinguo al nostro eroe ben si addice quella vecchia storiella del rabbino che, beccata la moglie a letto con l’idraulico, scuote il capo e fa schioccare la lingua contro il palato, dicendo sommessamente: «Mia cara, si comincia così e si finisce con il fumare di sabato...» - attività questa notoriamente proibita dalle regole del riposo festivo. Ma il nostro eroe ha per il momento un’idea assai vaga di quel che possa fare un idraulico con la prosperosa moglie del rabbino. E quanto a fumare, ci arriverà eccome – dedicandovisi con accanimento terapeutico, senza disdegnare nulla, proprio nulla di fumabile – ma più avanti nella storia.
Per il momento, cioè al principio de Il lamento del prepuzio, il piccolo Shalom – e il suo prepuzio mancante – belano appena. Mugolano un’incerta protesta, rivolta però a un destinatario tutt’altro che ignoto. Anzi ben chiaro. Si tratta per la precisione del «responsabile del Dipartimento addetto alla castigazione ironica»: «Il tizio di cui mi parlavano, però, è ancora in circolazione. Non me lo scrollo di dosso. Ho letto Spinoza. Ho letto Nietzsche. Ho letto il “National Lampoon”. Non è servito. Vivo con Lui ogni giorno e lo scruto: è ancora arrabbiato, ancora vendicativo, ancora – eternamente – incazzato. “L’uomo fa piani” dicevano i miei genitori “e Dio se la ride”. “Quando meno te l’aspetti” ammonivano i miei insegnanti “aspettatelo”».
Il piccolo Shalom è il terzo figlio di una famiglia americana molto, molto ortodossa. Mentre il rabbino Blonsky è un sacco preoccupato per il popolo ebraico, lui ha nove anni ed è un sacco preoccupato per il popolo ebraico di casa sua: un padre bravo a lavorare di mani (il che è una specie di tara, dentro un mondo che sublima il cervello e basta) e ad attaccarsi alla bottiglia, una madre con un vasto assortimento di giocattoli erotici sotto il letto, un fratello irriverente, una sorella con tendenza all’obesità mugugnosa. Fuori di casa, il mondo di Shalom è fatto tutto di ebrei nerovestiti e molto devoti.
E sopra la testa, sopra la papalina e il cappello nero a larghe falde, c’è Lui, quel Dio beffardo che, dal principio alla fine, resta l’ossessione irrisolta. Tanto che a un certo punto della storia, anzi piuttosto presto, il piccolo Shalom decide di vedere l’effetto che fa provare a trasgredire i Suoi comandamenti. Tutti, uno per uno, cominciando dai più trascurabili (si fa per dire) e arrivando a quelli ineludibili. Proprio come finirà per fare la prosperosa moglie del rabbino.
Il piccolo Shalom inizia con l’impappinarsi durante una spassosa, irresistibile gara scolastica di benedizioni, passa per i poco kasher hamburger del fast food, un’indefessa attività masturbatoria (nella migliore tradizione rothiana), l’uso disinvolto di mezzi di locomozione durante il sabato. E finisce con il dubbio atroce se circoncidere o meno il figlio nascituro, sulla sorte del cui prepuzio conviene lasciare al futuro lettore il beneficio della suspense.
Ma il piccolo e poi adulto Shalom trasgredisce soprattutto con le parole. Apostrofa Dio mettendolo di fronte a verità incontrovertibili, gli rinfaccia una prevedibilità impeccabile, malgrado l’estro nell’escogitare sempre nuovi metodi di castigazione ironica. Il lamento del prepuzio è una geremiade dei nostri tempi, un ritratto piccolo borghese in salsa yiddish, ricco di situazioni paradossali e momenti di umorismo puro. Il piccolo Shalom diventerà un adulto geniale e un po’ psicopatico, in rotta con le radici ma neanche tanto, ansioso fino allo spasimo e quasi complice di quel Dio che tanto detesta. Ne risulta un romanzo esilarante, trasgressivo ma accorato, intelligente e sofferto. Auslander è formidabile nel riconoscere tutti i difetti ebraici, e sa bene che per farlo gli basta guardarsi allo specchio.
267 p. 22 cm bross.
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