Recensione:
Allegria di naufragi per Corona
Bruno Quaranta, Tuttolibri - La Stampa
Mauro Corona è uno scolaro che compone guardando di là della finestra. Così inondando di vita la pagina, non arenandosi nell’esercizio calligrafico, rischiando l’uscita di strada, anzi, invocandola, refrattario com’è alle mappe autorizzate, alla segnaletica comme il faut.
Fedele innanzitutto, l’omone, il gigante di Erto, a un’arte negletta, tenuta dagli editori in gran dispitto: il racconto. Qui, nella nuova prova, ne offre venti e uno (Venti racconti allegri e uno triste), omaggiando la verità - certo personale, personalissima, ai più non accade - che Scott Fitzgerald proclamava: «I romanzi non si vendono. Devo scrivere dei racconti e devono essere racconti che si vendono».
Narratore orale, narratore d’istinto (una foga, però, orientata da un’atavica arguzia), narratore compenetrato in una terra su cui incombe, inestirpabile, impermeabile a qualsivoglia esorcismo, il fantasma del Vajont («Quella vergogna d’Italia, duemila persone entravano nel nulla per ambizione e interesse altrui», com’è remota la lettura fantastica di Buzzati).
Dove l’allegria? Dove la tristezza? In realtà, Mauro Corona è un acrobata sul filo dell’ossimoro: allegria di naufragi. Via via sbalzando, agilmente scalpellando (è anche scultore), una galleria di solitari che «come ogni buon solitario tengono vizio di alzare il gomito», una varietà di «passi all’aria aperta, di sguardi oltre le scarpe», di anime felicemente perse, e misogine, e misantrope.
A ciascuno il suo mondo piccolo, si vorrebbe augurare. Epperò è un tesoro di pochi una mappa di zolle e di spiriti. Mauro Corona fra costoro, riconoscendo le pepite nelle «pietre scartate dai costruttori del palazzo buono», confessandole, ascoltandole, seguendone le orme, ecco: soprattutto intuendole, sicuramente, in esse, specchiandosi.
Di volta in volta, si vorrebbe scovare un modello di Mauro Corona. Esercizio infine stantio, tale la personalità dell’affabulatore friulano, sentinella di «montagne dove non nevica firmato». Ma non si può non nominare almeno Guareschi, davanti alla vecchietta di «Letame» che ha mandato a memoria i versi di Faber: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
Sin dalla dedica, Mauro Corona rivela il sentimento protagonista del suo album: l’amicizia. Come la interpretano tagliaboschi, bracconieri, norcini (il pregiatissimo passo d’avvio, «Rinoceronte»), pastori, preti a misura di matti, tiratardi nell’osteria Pilin...
Corona è un rapinatore di storie, l’estremo testimone (e, quindi, salvatore) di una civiltà mille volte calpestata, l’impavido nostro inviato nell’inferno che un vero uomo non può non covare, incenerendo gli scribacchini da tinello che affollano premi, collane, scaffali. Sa che «dietro ogni caduta c’è la spinta di un tormento segreto che non si svelerà a nessuno, nemmeno in punto di morte». A chi, come lui, sa vedere, un goccio, ma no, una botte di rosso.
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