Recensione:
Giordano, aspettando il fuoco in Afghanistan
Lorenzo Mondo, Tuttolibri - La Stampa
Il romanzo di Paolo Giordano, Il corpo umano, racconta le vicende dei soldati italiani che si trovano a operare in un avamposto del Gulistan, nello scenario della guerra afghana. Impariamo a conoscere, in particolare, gli uomini del plotone comandato dal maresciallo René che, insieme al tenente medico Egitto, incarna una delle voci più consapevoli, e giudicanti, del libro.
Uno si chiede perchè proprio l’Afghanistan, se non fosse che quella terra, in quelle circostanze, offre un’immagine passabile dell’inferno. Una ossessiva vigilanza contro il nemico invisibile, la ricerca e il disinnesco degli ordigni esplosivi, le ricognizioni in villaggi muti e alieni, che interrompono giornate di noia sfibrante. Può accadere che la guerra più impegnativa e avvilente debba essere condotta contro la dissenteria provocata dal cibo guasto. Intorno, una distesa di montagne che concedono soltanto spiragli di desolata, sinistra bellezza.
Il senso di accerchiamento e reclusione comporta reazioni diverse, acuisce i tratti dei rispettivi caratteri, insieme alla nostalgia per gli affetti lontani e alla frustrazione del sesso inappagato. Lo spaccone, palestrato Cederna e il timido, complessato Itri, il terrorizzato Mitrano e il fantasioso Torsu, che frequenta una ragazza virtuale attraverso il suo computer satellitare. Quanto al risoluto, efficiente René, soffre di un conflitto interiore: deve lasciar abortire una donna, con cui ha avuto in Italia un rapporto occasionale, o persuaderla a desistere, accollandosi la responsabilità di un figlio? Il tenente Egitto è assillato da altri problemi. Si porta dietro il rimorso per i genitori malamati, ai quali rimproverava, oltre alla trascuratezza nei suoi confronti, la rovina della sorella più grande: spronata, per stupida ambizione e ossequio al decoro borghese, a sviluppare oltre misura le sue doti in vista di un destino d’eccellenza (detto di passata, è un tema che istituisce il solo, tenue legame di questo romanzo con La solitudine dei numeri primi). Vive in uno stato depressivo, che lo rende schiavo di ansiolitici e insidiato dall’abulia: «Esistono persone portate per l’azione, per comportarsi da protagoniste - lui è solo uno spettatore, prudente e scrupoloso: un eterno secondogenito». Ecco, l’Afghanistan come condizione estrema che rende più vividi i conflitti e le contraddizioni che si manifestano nella non esotica vita ordinaria. Questo, mi pare, interessa a Paolo Giordano, al di là della severa documentazione sulla vita militare - le armi, la disciplina, il linguaggio greve - e sulla mappa geografica in cui si esercita.
Ma quale significato assegnare al titolo del romanzo, Il corpo umano? Allude forse, da un lato, alla fisicità esuberante e insolente di uomini dediti al servizio delle armi; tradisce dall’altro il compianto per lo scempio provocato da una guerra feroce sulle loro giovani sembianze. Ma, andando più a fondo, il titolo segnala l’appartenenza a un «corpo» che, in quanto umano, esula da ogni incasellamento di ordine militare. Ed è un involucro che, oltre ogni debolezza e cedimento a istinti elementari (sui quali l’autore insiste con qualche compiacimento), sa sprigionare inaspettate risorse interiori. Prendiamo l’episodio risolutivo dell’agguato talebano al plotone che procede in colonna sui mezzi motorizzati. Un gregge sterminato cala dalla montagna a intralciarne il cammino, ad anticipare una furibonda, esiziale massa di fuoco. Tra le pecore maciullate e le esplosioni, gli antieroi del maresciallo René mostrano un inusitato sprezzo del pericolo, dettato dal loro attaccamento ai compagni, dalla fedeltà al «corpo umano». E’ il tratto più avvincente di un romanzo condotto con mano ferma, ricco di meditate suggestioni, ben più che la conferma di un talento.
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