Recensione:
Mazzantini, la crisi di una coppia espressa in un linguaggio di gergale, disinibita crudezza. L’ultima cena dell’amore a pezzi
Lorenzo Mondo, Tuttolibri - La Stampa
Margaret Mazzantini ha scritto con Nessuno si salva da solo un romanzo molto diverso da Venuto al mondo, dalla sua complessa orchestrazione, dal suo sguardo rivolto a una realtà che appariva come enfiata da una delle guerre più sanguinose di fine secolo, quella bosniaca. Qui la vicenda è calata e circoscritta in un ambito privato, si tratta della crisi di una coppia, che non esclude una forma di acre inimicizia, espressa in un linguaggio di gergale, disinibita crudezza.
Delia e Gaetano si incontrano in un ristorante per decidere dell’affidamento dei figli, che vivono con lei, durante le vacanze estive. Hanno appena rotto il loro matrimonio, sono colmi di risentimenti e rinfacci. L’autrice ricorre con grande bravura alla cornice strutturale del pranzo, ai gesti abitudinari, ai dialoghi spezzati che scandiscono la loro storia, evocata attraverso il monologo interiore. Alla passione fiammeggiante, cementata dalla tenerezza per i piccoli Cosmo e Nico, si è sostituita quasi insensibilmente l’usura dei sentimenti, che sfocia nel disamore aperto e dichiarato.
Il dissidio viene allo scoperto in seguito a un tradimento di Gaetano, ma ha radici lontane. C’è la frustrazione dell’uomo, un mediocre sceneggiatore cinematografico, trafelato fino a trascurare la famiglia nella ricerca del successo. C’è poi in lui una superficialità di fondo, una irriflessiva voracità vitale che si manifesta, anche adesso, nella sua applicazione al cibo davanti alla moglie inappetente e giudicante. E c’è la lenta assuefazione alla menzogna che Delia, ben altrimenti risoluta, non sa perdonargli.
Entrambi pagano poi lo scotto di una orgogliosa alterità, rivelatasi fragilissima, nei confronti della gente comune. Eppure non sembrano ragioni sufficienti a spiegare la destituzione di un amore che fu fervido e potrebbe essere non del tutto sopito. In realtà, mancano ai protagonisti le parole che potrebbero fare chiarezza dentro la confusione di sé e del mondo che li circonda. Certo non giova il surrogato festoso o iroso del turpiloquio. Solo per un momento Gaetano sa uscire dall’afasia: «Se lui non fosse stato una comparsa del suo tempo. Se non avesse avuto quel giubbotto Harley-Davidson e il resto... magari avrebbe avuto una diversa tensione morale. Non si sarebbe lasciato marcire anzitempo, aggrappato a modelli che passano, come manifesti di film». Analoghe parole Delia riesce a trovare al termine di quella cena: «Loro appartenevano alla generazione della patacca, del remake. Tutto era già stato provato, si trattava solo di rivisitare, senza un vero nerbo... Il sogno di tutta la gente che conoscevano era quello di organizzare eventi. Di anelare a una festa continua sulle macerie di tutto. L’egoismo come unica borsa a tracolla». E sotto la festa continua, il dilagare di una capillare violenza nelle strade della città. Ma questo era il mondo che avevano avuto in sorte, con la loro complicità, e per uscirne insieme ai propri figli dovevano «drizzare le antenne per captare un segnale positivo». Questa resipiscenza, che allarga il discorso a una intera generazione, potrebbe apparire un poco appiccicata per un improbabile lieto fine; se non fosse che viene insinuata abilmente nel corso della narrazione da ripetuti indizi. In parallelo con quella dei protagonisti, si consuma infatti nel ristorante la cena di una coppia di anziani, innamorati come due adolescenti, che si presentano a Delia e Gaetano al termine della serata. Lui è un uomo ciarliero, confida di avere festeggiato con la moglie la sua «resurrezione». Ha subito l’ennesimo intervento per un cancro che lo divora, ma si sente felice per i giorni che gli sono concessi e che assapora con intatto trasporto, per la premurosa compagna dalla quale non ha mai pensato di separarsi. E sigilla la sua professione di acceso amor vitae con la sentenza che «nessuno si salva da solo». Gaetano scopre in lui il personaggio laterale e dimesso che ha sempre cercato nelle sue sceneggiature, quello «che spinge l’eroe a superare la soglia», ad attingere la verità. Al posto suo provvede Margaret Mazzantini che attribuisce al vecchio una potenzialità salvifica, non esente da una vaga religiosità.
Non indugerò più di tanto su questo e altri momenti che riescono a intormentire appena i due desolati eroi, senza proporre soluzioni zuccherose o edificanti. Come si conviene a un romanzo che ha fatto dell’asprezza la sua divisa stilistica e morale.
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