Recensione:
Dal rocker emiliano quotidiane storie di gente comune che cova l’eccentricità
Bruno Quaranta, Tuttolibri - La Stampa
BRUNO QUARANTA Quando uscì «Certe notti», Lucio Dalla gli vaticinò un successo sommo: settecentomila copie vendute, o su di lì. L’auspicio è che i fan della parola in musica (una porzione, almeno) «ascoltino» Luciano Ligabue anche sulla pagina. Per intenderne l’altra vocazione, sicura, nitida. Come il volto del rocker di Correggio, una corteccia dove le stagioni hanno lasciato un’orma, disdegnando le scorciatoie, le mascherate, gli effetti speciali (e dunque effimeri). Già nell’ormai lontano titolo d’esordio, ultimi Anni Novanta, Fuori e dentro il borgo, Ligabue rivelò una vena narrativa degna. A misura, soprattutto, di racconto. La brevitas, il lampo, lo squarcio, il détail, l’inattesa deviazione. Ecco la scacchiera su cui si muove agilmente il conterraneo di Francesco Guccini (a proposito di plurali talenti - e di là della via Emilia come non ricordare i versi di Bruno Lauzi?): sobrio, meditabondo, flemmmatico, sensibile all’idioma («”Alla salute!”, una delle poche convenzioni davvero efficaci della nostra lingua»), accudendo i personaggi fino a, improvvisamente, liberarli, quasi intimando loro di agire. Quotidiane storie di gente comune che cova l’eccentricità. Il rumore dei baci a vuoto è un giro armonico non avaro, anzi, di bagliori. O di magic hour, che Ligabue, pure regista (Radiofreccia), ben conosce e ravviva: «Il sole andava a perdersi dietro una riva e l’altra era investita da quella luce calda e collosa in cui i direttori della fotografia vorrebbero sempre girare qualche scena. Loro la chiamano magic hour». Luciano Ligabue da Correggio. La geografia come carta d’identità dell’autore. «Il Reggiano - annoterà il viaggiatore Piovene - è una delle zone dove la speciale e geniale follia emiliana è meno appariscente, ma più profonda». Ecco il bandolo delle storie, il loro leitmotiv, la dominante che raggiunge il diapason nelle «Ragioni del silenzio». Ovvero quale «mostro» può generare il tran tran della interminabile vita coniugale, ovvero come «una bambina di sessantasei anni» recupera la favella, e così l’efferata innocenza. Perché Luciano Ligabue corteggia specialmente il lato crudele della vita, alla Villiers de L’Isle-Adam. Indossando le vesti del Fato: «Per giorni e giorni si sarebbe chiesto come mai quella sera avesse scelto proprio quella strada». Ovvero come un gatto alla Lewis Carroll - la coscienza travestita da felino - possa scoperchiare (rivoltare) una famiglia. O come il gioco della confessione sospinga (spinga) una coppia in rodaggio verso un destino kafkiano - quell’insetto che ciascuno alleva in seno (o nelle mentali paludi). O - «La puzza non passa» - il pregiudizio che beffardamente guasta, macchia, infetta la performance magistrale dell’egregio comico. La provincia come scuola di scrittura? Una verità che si rinnova nelle stagioni, da Georges Simenon a Piero Chiara. Luciano Ligabue si è nutrito, si nutre, sedendo al desco dove «il piatto forte» sono le «chiacchiere di paese», l’ars affabulatoria che rappresentano, l’officina dove si forgia un ferro del mestiere quale il dialogo. Nel Rumore dei baci a vuoto l’autentico en plein, il lodevole sigillo. Risaltano in particolare tra le virgolette le anime via via modellate, una giostra di caratteri sapientemente accelerata e rallentata. Come nell’«Estate più calda fin qui», due uomini e due donne in barca, di chiusa in chiusa, una tranquilla, francese vacanza di paura, suggellata alla maniera di Stephen King o (di già che si è reso omaggio alla provincia) di Giorgio Scerbanenco - quei Racconti neri. Come, in «Ristretto vuol dire ristretto», lo svuotamento dell’If di Kipling. Come, in «Lo vuole vedere?», un grido di dolore scagliato contro il cinismo. Come, in «Pioggia di stelle», non a caso, forse, l’estrema tranche de vie, l’inno al lieto fine, ad un amore miracoloso. Si torni al 1998, all’album «Radiofreccia»: «Love is the drug for me... ».
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