Recensione:
Il ritorno di «Revolutionary Road»
Masolino D'Amico, Tuttolibri - La Stampa
Ora che anche Revolutionary Road è diventato un film, di classici americani moderni non ancora visitati dalla macchina da presa rimane solo Il giovane Holden, sempre gelosamente difeso dal suo autore. Non credo questo sia stato il caso anche di Richard Yates, lui fu anche sceneggiatore a Hollywood, pur esecrando l’esperienza con tutte le sue forze. Ma posso capire che i registi abbiano trovato arduo rendere giustizia al suo capolavoro, malgrado l’iperrealismo con cui è raccontato e che ne rende ogni momento visivamente così forte. Come Yates stesso spiega assai lucidamente, il fatto è che quanto dicono i personaggi principali è sempre contrapposto a quanto essi pensano in realtà. In altre parole, proprio come avviene nella vita, essi recitano continuamente una parte. Per ottenere qualcosa, mettiamo, uno può dire «ti amo», e magari lì per lì illudere persino se stesso di essere sincero, mentre quello che sente è ben diverso.
Entrare nella testa delle persone e riferirne le elucubrazioni è una conquista della narrativa moderna, da Joyce in poi; a teatro non è possibile, se non nelle confessioni al pubblico tipo monologhi di Amleto; al cinema è difficilissimo, anche se in chiave ironica esiste la lezione del geniale Alberto Sordi. Andrò a vedere con curiosità come se la sono cavata il regista Sam Mendes e i suoi bravi attori.
Intanto per quanto mi riguarda ho accolto volentieri l’occasione di rileggere ancora una volta questo libro che pur sembrando così legato al momento in cui apparve, è poi rimasto come un classico valido per ogni tempo. Della società americana anni cinquanta che descrive non sembra infatti sopravvivere quasi nulla. Insoddisfatto della facilità con cui può trovarsi un qualunque lavoro ben pagato e sprofondare in una routine che una bella moglie, una linda casetta in campagna e due vispi marmocchi non sembrano giustificare, il protagonista beve molto, come del resto fanno tutti, anche a letto, fuma incessantemente, e asseconda vagamente la consorte, che ancora più oppressa di lui dalla monotonia della loro vita sogna un audace trasferimento a Parigi, dove ripartire da zero; ma poi, segretamente impaurito dal doversi confrontare con la propria sempre dissimulata mediocrità, sabota senza parere il progetto, con conseguenze addirittura tragiche.
Assistito da uno stato di grazia che forse non avrebbe più ritrovato nei sette romanzi che scrisse dopo questo, Yates tiene fermamente in pugno non soltanto la giovane coppia apparentemente bella e fortunata, in realtà rosa da inquietudini che non riesce a capire, ma tutto il piccolo ambiente che la circonda, vicini di casa, colleghi d’ufficio di lui (compresa la segretaria sexy e sciocchina con cui Frank ha un trascorso), eccetera, tutta gente mediocre ed egoista anche se mai cattiva; l’unico grillo parlante con una scintilla di autenticità essendo, qui certo l’autore calca un po’ la mano nella simbologia, un pazzo recluso in una clinica e reduce da decine di elettrochoc.
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