Recensione:
Mussolini: la mia musica
Alberto Sinigaglia, Tuttolibri - La Stampa
Sull’orlo dell’abisso Mussolini suonava ancora il suo violino. L’ultima volta fu nella primavera del 1944 a Gargnano. Con il figlio Romano al pianoforte Bechstein di Villa Feltrinelli eseguì il valzer della Vedova allegra. Ormai alla fine del potere e della vita il duce dava l’addio a due amori. Non s’era perso l’operetta di Lehár al teatro Manzoni di Milano neanche il 27 ottobre 1922 prima di salire sul treno che lo portava alla marcia su Roma.
Non aveva mai abbandonato il violino neanche da presidente del Consiglio pur nel vortice d’impegni che si accaniva ad accollarsi e accentrare. Lo suonò, racconta Paolo Monelli, dopo l’attentato di Bologna, il quinto cui era scampato tra il novembre 1925 e l’ottobre 1926. Lo suonò - testimonia Lando Ferretti, portavoce del governo - «l’11 febbraio 1929, alle 10 del mattino», due ore prima di firmare i Patti Lateranensi. Suonava la ninna nanna sulla culla della primogenita Edda. Suonava nelle notti erotiche congedando le amanti con un omaggio musicale. Suonava quando Claretta Petacci si metteva a piangere.
Che Quintino Sella scalasse montagne e che Giolitti giocasse a bocce erano dettagli, marginali note di colore: mai statista italiano aveva esibito passioni e vita privata per calamitare popolarità e consensi. Ispirandosi al caleidoscopico D’Annunzio, Mussolini mise in scena la politica spettacolo: della forma faceva sostanza, dell’apparenza faceva messaggio. Camaleonte senza limiti e senza pudori, si tramutava in marito, padre, grande amatore, aiuto fabbro, contadino, emigrante, muratore, maestro, minatore, bersagliere, giornalista, caporale, maresciallo. E violinista. «Non so suonare il violino», si schermì Mussolini con il virtuoso Fritz Kreisler: «Ci gioco, non è che lo suoni come un artista». Ma la passione musicale era innata. La coltivò. La usò quale strumento della sua autorità assoluta.
Innumerevoli gli episodi e i membri dell’Orchestra del duce che Stefano Biguzzi indaga per scoprire quanto la musica abbia giovato al «mito del capo», colonna sonora di servilismi senza freni, interessate celebrazioni, sgangherate genuflessioni. Pessima figura fanno i compositori, pronti a pagare il prezzo dell’allineamento per un seggio all’Accademia d’Italia, una casella nel libro paga del regime, una breve udienza. «E lei che vuole?»: sprezzante, l’«uomo del destino» fulminò Puccini che nel 1923 aveva chiesto d’esporgli certe «idee sul teatro lirico nazionale da erigersi in Roma». L’anno dopo lo fece senatore e alla sua morte, nella tempesta scatenata dal delitto Matteotti, sbandierò che l’«insigne musicista» aveva chiesto la tessera del partito. Giordano, tra dediche di opere e inviti alle rappresentazioni, si candidò alla presidenza dell’Eiar. Cilea e Montemezzi subissarono Mussolini di richieste perché i teatri li rimettessero in cartellone. Asfissiante nell’assedio al duce era Mascagni, «un imbroglione» lo definirà Gavazzeni che alla prima del Nerone alla Scala lo vide luccicare «di trucco e tintura come un saltimbanco sotto i riflettori».
Della «generazione dell’Ottanta», se fascisti un po’ «sui generis» sembrano Respighi e Malipiero, «fascistissimi e nemicissimi» sono Casella e Pizzetti. Toccarono abissi di piaggeria e fervore fascista i superpagati tenori Gigli, Lauri Volpi, Schipa e Pertile. Al confronto eroica e scaltra, Toti dal Monte cantò davanti a Mussolini e Hitler poi corse a sostenere la resistenza trevigiana. Neppure tra i celebri direttori d’orchestra mancarono i cortigiani. La fotografia con dedica del capo fu accolta da De Sabata con «commosso orgoglio», da Molinari come «il più caro ricordo». Marinuzzi adulando chiese al dittatore di riceverlo «per pochi istanti». Per fortuna ci furono Gui firmatario del Manifesto di Croce, il freddo distacco di Serafin e il furore di Toscanini, che non si lasciò intimidire dagli schiaffi squadristi di Bologna né trattenere dalle lettere del duce e di Hitler: abbandonò Bayreuth, Salisburgo, l’Italia. E tornò in trionfo a Milano per inaugurare la Scala ricostruita un anno dopo che i cadaveri di Mussolini e di Claretta erano stati appesi per i piedi in Piazzale Loreto.
Al dittatore il libro non fa sconti. Vuol solo illuminarne l’aspetto musicale ai più ignoto. Lo fa bene e fa pensare. Mussolini fu il primo nostro governante, compresi i padri del Risorgimento, a occuparsi della musica quale grande risorsa italiana: un po’ di educazione musicale nelle scuole, riforma dei conservatori, teatri lirici strappati a impresari orecchianti e faccendieri, creazione del Maggio Musicale a Firenze e del Festival di Musica Contemporanea a Venezia, aperti a Stravinskij e agli innovatori, prima che la guerra ci incagliasse nel pantano dell’autarchia. E il clientelismo? E le poltrone redditizie divise tra i più fedeli e proni? Se ciò non rende tutti immuni da qualche musicale nostalgia, non è merito del violinista di Palazzo Venezia. E’ colpa degli inquilini che dopo di lui hanno abitato i palazzi romani: di clienti e poltrone ci si è preoccupati fin troppo a sinistra, a destra e al centro. Della musica meno. Molto meno.
Product Description:
Rare Book
Le informazioni nella sezione "Su questo libro" possono far riferimento a edizioni diverse di questo titolo.