Come in quel secolo che non poco lo riguarda, il Cinquecento, due anime convivono e contendono nella poesia di Stéfan: classicismo e manierismo (o già barocco); atticismo e asianesimo: l’essenziale e il turgido, il netto e l’oscuro, i fulgori della carne e il buio Niente: Idylles e Cippes. Un Cinquecento che non è solo quello di Scève e Louise Labé – presenze tutelari e dedicatorie, volute in epigrafe ad Alma Diana; ma è anche il secolo di Bruno, di Speroni – teorizzatori della violenza amorosa sulla lingua, dello sregolamento linguistico come effetto (o equivalente) della forza perturbatrice d’Amore: quel «furore» che qui resiste, ormai diseroicizzato... Vi è in Stéfan, persistente, la petizione dell’improprietà, o piuttosto dell’esproprio: un espropriante uso proprio della lingua (ma anche, a rovescio, un suo appropriato uso improprio). In poesia si tratta di restituire alla lingua la sua proprietà, quella proprietà che viene sempre insidiata, offuscata dall’utile, dalla convenzione: ciò che si conviene e ciò che conviene – il lessico quotidiano come il gergo poetico corrente. Un poeta può essere un discordante strumento, se attraverso di lui opera la più profonda sapienza medica della lingua. Così è in queste poesie di ex amore, effemeridi su una Diana contemporanea stilate da uno tra i primi poeti francesi d’oggi.
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