Riassunto
Già, il gelato. Oggi alimento largamente diffuso in ogni stagione e in tutte le classi sociali, anche le meno abbienti: per i figli del magro e asprigno dopoguerra, indissolubilmente legato all’idea di una sola stagione, l’estate; alla percezione della festa, del premio per una conquista faticosa, di una qualche promozione sociale. Un gelato rappresentava la ricompensa per un esame scolastico felicemente concluso; faceva la sua apparizione sulla tavola (quando avveniva!) la domenica, a concludere il pranzo insieme a parenti; oppure, consumandolo seduti ai tavoli di una gelateria, sanciva agli occhi propri e a quelli degli altri un passaggio di status, da quasi poveri a quasi piccolo borghesi. Ma il vero serbatoio dei piaceri dolci-freddi era la latteria sotto casa. Qui, un congegno elettrico di modesta tecnologia agitava ininterrottamente, in un recipiente di alluminio, una panna densa e grassa, figlia del latte intero della Centrale. Quella panna andava a guarnire gli unici altri due sapori possibili in quella modesta gelateria, una crema e un cioccolato, che, sposandosi con il morbido derivato del latte, realizzavano una sapidità rimasta a tutt’oggi indimenticabile: quella dell’infanzia. Allora per noi, il gelato rappresentava una liturgia importante almeno quanto il caffé per gli adulti, ma, al contrario dei ‘grandi’ non costituiva quasi mai un rito individuale: era, il più delle volte, collettivo. Aiutava a esorcizzare il caldo delle giornate estive da trascorrere in città, era parte centrale delle prime, ingenue strategie del corteggiamento; sempre accompagnava le affabulazioni del dopocena: la televisione ancora non c’era. Sarebbe arrivata tra poco e per questo il nostro mondo, quello ‘povero ma bello’ degli anni Cinquanta, non sarebbe certo diventato migliore.
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