Recensione:
Tastevin all’ultima sfida
Lorenzo Mondo, Tuttolibri - La Stampa
Con il romanzo Di viole e liquirizia, Nico Orengo sposta per la prima volta la sua voglia di raccontare oltre lo spartiacque che separa il Ponente ligure dal Piemonte. La conquista di un nuovo territorio rappresenta già un motivo di interesse non epidermico, se riferito a uno scrittore per il quale l'ambiente, assorbito golosamente, assume una importanza primaria.
Un altro elemento nuovo consiste nel fatto che viene recuperato con piena dignità alla narrativa un personaggio finora confinato nelle guide enogastronomiche e negli opuscoli di promozione turistica: il «tastevin», l'assaggiatore di vini. E' questa la professione di Daniel Lorenzi, un francese che viene invitato un poco provocatoriamente ad Alba per tenere un corso di degustazione sui prodotti d'Oltralpe. Lo ha invitato Amalia, proprietaria di una enoteca, «un sorriso bianco sotto due occhi neri in una massa di riccioli rossi come viti di autunno». Scatta fra di lei e il grosso, scarruffato ospite una corrente di simpatia, favorita dai rispettivi travagli. Lorenzi, separato dalla moglie, ha una figlia che si droga; Amalia condivide con il fragile fratello Giulio, che ha per lei un attaccamento morboso, una dolorosa storia familiare.
Nel romanzo assistiamo alle prodezze del «tastevin» forestiero che apprezza ogni sfumatura dei vini locali, incantando gli intenditori con un linguaggio in cui lo specialismo si apre a fantasiose, poetiche amplificazioni. Ma Orengo non rinuncia a comporre attraverso la sua scrittura un personale e più pervasivo «bouquet», dove confluiscono, tra gente e paesaggio, i colori, i sapori, gli umori della terra di Langa.
Al centro della storia c'è una vigna inselvatichita, la Ginotta, che potrebbe dare un ottimo barbaresco ma che è stata abbandonata da Amalia per una sorta di oscuro maleficio. E' il suo recupero a propiziare affetti e amori, a suggerire perfino la ricostituzione di un equilibrio turbato. Sarà il ricongiungimento di Daniel con la figlia, venuta a disintossicarsi idealmente sulle colline di Alba; sarà il suo legame con Amalia, che arieggia nella camicetta fucsia e nella gonna nera, color liquirizia, le virtù di un vino prezioso. Il «tastevin», del resto, è tutto preso ormai da quel mondo, fino a piegarsi, per amore di Amalia, all'inveterata passione langarola per il gioco d'azzardo: anche se la sfida non richiede le carte da poker ma una serie di bicchieri dei quali dovrà identificare il contenuto, compresi produttore e annata. Per lo straniero è una specie di battesimo, raccontato da Orengo in pagine gustose e incalzanti.
La nota dominante del libro, si sarà inteso, è la leggerezza, quasi indotta dagli effluvi esilaranti che si sprigionano da vigne e cantine. La leggerezza appare tuttavia graffiata da dissonanze e malizie. Non si tratta tanto delle imbrogliate situazioni familiari di Daniel e di Amalia; e neppure delle malinconie amorose di quello scrittore solitario che interviene, in un segmento della vicenda, a surrogare Orengo come «deus ex machina». Qui interessa piuttosto la figura del taxista Luciano. Un bel tipo che, scarrozzando tra curve e pendii, denuncia il prezzo esorbitante dei terreni, i facili arricchimenti che hanno cancellato la memoria di quando, sulle Langhe, imperversava la «malora» e scorreva il sangue della guerra partigiana.
La vita è cambiata, e non sempre in meglio. Anche il paesaggio non è più lo stesso, come appare dall'invadenza dei capannoni industriali, dalla cancellazione degli alberi da frutta che ingentilivano le colline, sacrificati dalle vigne ben più redditizie che invadono perfino, fraudolentemente, i terreni senza vocazione. «Di tutta questa retorica del vino - sbotta Luciano - non ne posso più. Abbiamo ormai solo quello e ci costruiamo castelli di balle». Il suo è un controcanto sommesso alla festosa e spesso arzigogolata celebrazione del vino, è l'espressione di una coscienza offesa e giudicante. Attraverso il taxista che beve solo birra, senza discettare su marche e qualità, Orengo tempera la sua cordiale adesione alla Langa dionisiaca, dove perfino le notti sembrano offrire «vendemmie di stelle». Si concede qualche tocco di ironia, lascia trasparire qualche ombra di perplesso disagio.
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Buono stato.
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