Recensione:
Erri De Luca davanti alla farfalla
«Non sente la montagna chi non sente / questa farfalla...». Potrebbe essere gozzaniana l'epigrafe di Il peso della farfalla di Erri De Luca. Se solo si distingue: mentre il Bel Guido supino nel trifoglio fugge la Storia, lo scrittore napoletano nell'agone della natura fa i conti con un tempo passato, ma sempre in agguato, contemporaneo. Forse solo uscendo dal proprio mondo se ne può afferrare il bandolo, eventualmente il cuore di tenebra. Il peso della farfalla è (anche) una stagione tragica che depone la maschera attraverso la favola, un esame di coscienza velocissimo come un colpo di fucile, e schietto, non ansioso, anzi, di assoluzione («Non era pentito, non poteva risarcire il torto... I debiti si pagano alla fine»). Erri De Luca narra la sfida di due re, di due sovrane solitudini, con una lingua tesa, a un soffio dalla strappo, cornucopia di immagini diamantine. Il re dei camosci che «da molti anni dominava il territorio, sfidato da nessuno» e il re dei bracconieri che si era ritirato lassù «dopo la gioventù passata nella città tra i rivoluzionari, fino allo sbando». Nel regno animale riconoscendo e rispettando un codice, dopo essersi «accanito a rovesciare il piatto», laggiù, non sapendo sostituirvi un nuovo piatto (o patto). Di malga in bosco, di vento in fulmine, montalianamente imparando che non può nascere l'aquila dal topo, arrotando l'estremo duello. Nobile. Perché se «con gli uomini il peggio era possibile di nuovo», al cospetto della farfalla che dantescamente «vola a la giustizia sanza schermi» dare e ricevere la morte può essere unicamente un atto cavalleresco. Almeno lassù.
Recensione di Tuttolibri, a cura di Bruno Quaranta
Le informazioni nella sezione "Su questo libro" possono far riferimento a edizioni diverse di questo titolo.