Recensione:
L’esordio: Concerti senza orchestra per fantasmi
Bruno Quaranta, Tuttolibri - La Stampa
Ede, mio caro, il testo è indubbiamente di valore, ma perché non ci inserisce qualche cadavere, o qualche stupro? Il pubblico lo gradirebbe certamente di più». Nicola Lecca, ventiduenne, sardo di Cagliari, studente in Filosofia, esordisce con otto racconti musicali, ciascuno battezzato da una nota, fino a riprendere, nell’ultimo, il «do», il tema iniziale. Prose fuori del tempo, istoriate, soffiate nel vetro, felicemente impalpabili. Fino a suscitare il giudizio virgolettato, che l’autore attribuisce al redattore di un immaginario periodico francese. Non vi è nulla di cannibalesco, di pulp, di «acido» nei Concerti senza orchestra, autenticati da Sergio Maldini, il costruttore della sempre solida Casa a Nord-Est: «Lecca ha scritto questi racconti come una volta: per l’eternità. Mi rallegro che esistano ancora ventenni come lui». «Inviai le mie prove - ricorda - anche a Giovanni Raboni e a Mario Rigoni Stern. Fui incoraggiato ad avanzare, ad avere fiducia nelle mie qualità. Ho appena saputo che parteciperò allo Strega, in veste di ’’padrini’’ Renato Minore e Raffaele Crovi». Fantasmi, fantasmi di se stessi: ecco le figure alitate nella pagine di Lecca. Fogli di un taccuino europeo, stazioni di un ininterrotto, aristocratico viaggio nelle atmosfere d’antan: Amsterdam e Varsavia, Ginevra e Zurigo, Avignone e Parigi («Mi sentii un privilegiato, avevo come l’impressione di possedere Parigi tutta per me, di essere il Signore arcano di quella notte brumosa»). E’ un baule di spartiti, questa galleria canforata. Da Bach a Beethoven, da Caikovskij a Ravel, da Schubert a Paganini, da Mozart a Brahms («La mia vita, ormai, ruota attorno a due grandi passioni: la prima, che risale all’età infantile, è per il pianismo di Brahms; la seconda - decisamente più recente, ma altrettanto intensa - è per Viviane Amandier, una raffinata musicista francese»). E’ un ostinato catalogatore (rigattiere) di buone cose, Nicola Lecca, un flâneur antiquario: il camino, il treppiede, i pennini, la boccetta dell’inchiostro nero profumato alla violetta, il tampone di carta assorbente, sontuose carrozze, colletti barocchi, guanti bianchi, bastoni dal pomo d’avorio... E i volti diafani, e le dita di cera, e i caratteri incisi nella velina, incastonati di segreti («Allora le accarezzai i capelli. Poi, con gli occhi che annegavano fra mille altre lacrime, ci guardammo dritto nell’anima: e, improvvisamente, compresi ciò che mai avrei voluto sapere»). Un’illimitata fiducia nel Bello, nel Valore, nel Capolavoro irrora i Concerti di Nicola Lecca. La speranza (o la sicurezza) che lo sfregio, la volgarità, l’approssimativo saranno spodestati. Una catarsi allevata e custodita in un clima monacale. La forza di “stare” in solitudine, di difendere in un’ideale, inespugnabile fortezza Bastiani, l’oro che i troppi bucanieri mai riusciranno a sporcare. Di Concerto in Concerto è un andare ininterrotto dalla vita alla letteratura. Nicola Lecca è assolutamente arreso alla parola, financo disarmato, permeabile ai giovanili errori: l’erudizione esibita, l’esercizio di stile, il piacere di ascoltarsi. E di essere riconosciuto, applaudito: «Da un palco laterale, un ultimo giovane spettatore mi saluta, levandosi il cappello con un gesto raffinato».
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