Recensione:
Rivoluzione digitale nemica del mercato
Luigi Grassia, Tuttolibri - La Stampa
Il capitalismo si è nutrito di rivoluzioni tecnologiche, non si spaventa dei cambiamenti, anzi ci sguazza, e Schumpeter ha addirittura cantato il peana alla sua «distruzione creatrice». Ma la rivoluzione digitale non è un cambiamento di paradigma tecnologico come tanti altri già visti in passato: stavolta il capitalismo (inteso non solo come mercato e come modo di produzione, ma anche come sistema sociale complessivo, e come fonte di cultura, di identità e di valori) rischia di essere spazzato via. Innanzitutto perché il web «cancella milioni di impieghi e al loro posto crea lavori del cazzo» (parole dell’antropologo David Graeber). Così viene erosa la base di consenso del sistema: soltanto l’uno per cento della popolazione ci guadagna mentre il 99% resta privo di uno stipendio vero e proprio e (in prospettiva) senza pensione del tutto.
Ma questa critica, per quanto pesantissima, è ancora superficiale: gli apologeti del digitale possono sempre respingerla come argomento da luddisti, e ribadire la fede che anche la rivoluzione attuale, come le precedenti, alla fine creerà i nuovi milioni di lavori ben pagati che servono. Ma secondo Paul Mason questo non succederà. Perché la rivoluzione digitale andrà avanti, ma il capitalismo no: «Un’economia basata sull’informazione, con la sua tendenza a generare prodotti a costo zero, e ad annullare la proprietà intellettuale, non può essere un’economia capitalista». Il vizio vero del digitale, dal punto di vista del capitalismo, è che «distrugge i meccanismi di prezzo». Se tutto è tendenzialmente gratis, il mercato non funziona più. E i lavori ben pagati non nasceranno mai, se non per il solito 1% della popolazione. Non solo il critico Marx, ma anche l’apologeta Schumpeter aveva vaticinato la fine del capitalismo, prima o poi. De profundis?
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