Recensione:
Un genio malefico seduce Simenon
Giovanni Bogliolo, Tuttolibri - La Stampa
Il borgomastro di Furnes è uno dei più cupi e amari romanzi di Simenon. È ambientato in una cittadina fiamminga che non è la Furnes della realtà, ma un luogo inospitale, perennemente grigio di nebbia e lucido di pioggia, che lo scrittore ha assunto "come una sorta di motivo musicale", di basso continuo di freddezza e di desolazione.
Ha per protagonista un personaggio che non potrebbe essere più altezzoso e sgradevole, Joris Terlinck, un piccolo ras locale che si sente così potente e sicuro da non preoccuparsi neppure più di nascondere la tracotanza dietro le maschere dell'ipocrisia e della buona educazione. E per comprimari ha una piccola folla grigia e subalterna che cova in silenzio le sue malevolenze e le sue invidie e affetta deferenza verso il Baas, l'incontrastato padrone che pretende ubbidienza assoluta e dispensa con lo stesso sovrano disprezzo sigari della sua manifattura e cocenti umiliazioni.
A tutto e a tutti, in casa e fuori, Terlinck ha imposto l'ordine imperioso di un meticoloso e ripetitivo rituale, segno esteriore e tangibile di una raggiunta e non più modificabile perfezione, ma anche, più in profondità, simulacro di norma imposto a ciò che intollerabilmente le sfugge. A esso soggiaciono infatti tanto le vittime consenzienti - il pavido e infido segretario comunale, la moglie mesta e silenziosa, la serva-amante e la massa supina dei cittadini - quanto le refrattarie: la povera Emilia, la figlia pazza che tiene segregata in una stanza e circonda di cure tanto amorevoli quanto inadeguate, e il suo avversario politico Leonard Van Hamme. L'occasione di ridurre all'ubbidienza anche quest'ultimo giunge insperata una sera in cui un suo dipendente gli viene a chiedere un anticipo: è fuori di sé, minaccia di uccidersi, ha messo incinta la figlia di Van Hamme, ha bisogno di denaro per farla abortire. Nulla che possa far derogare Terlinck dai suoi principi, ma quanto basterà a far scoppiare la tragedia e a gettare vergogna e discredito sulla famiglia del suo rivale. Ma, proprio nel momento in cui nulla sembra più opporsi al suo assoluto dominio, qualcosa in Terlinck si comincia ad incrinare. Un po' per curiosità, un po' per rimorso, prende a frequentare e a proteggere la figlia di Van Hamme, che, cacciata di casa, si è rifugiata a Ostenda. È una breve evasione, un temporaneo cedimento alle lusinghe dei sentimenti, ma questa nota di timida dolcezza che si è inopinatamente insinuata nell'uniforme grigiore della sua vita avrà per lui effetti devastanti.
Simenon è maestro ineguagliabile nel rappresentare personaggi a nudo, esistenze appagate che d'un tratto si trovano a tu per tu con i compromessi, gli equivoci, le menzogne su cui fino a quel momento si erano rette. In questo romanzo però, senza forzare i toni, senza fare la più piccola deroga ai suoi principi di parsimonia espressiva, semplicemente dipingendo nero su nero, tocca un vertice assoluto.
La grande trovata del romanziere è di aver fatto di Furnes e del suo borgomastro un'unica, mostruosa, consustanziale entità. Poi gli basta ritrarre il personaggio con la sua abituale perizia nel coglierne un gesto, una parola, un tic significativo e affidare la descrizione del paesaggio circostante ai soliti rapidi ma incisivi dettagli: ci penserà il lettore a sommare il nero del quadro al nero della cornice, l'ostilità alla grettezza, la desolazione all'arroganza, fino al limite della tollerabilità. Un solo esempio. È sera, siamo nella birreria del Vieux Beffroi, ai tavoli si gioca a whist o a dama, Terlinck, seduto accanto al camino, beve la sua birra: "Tutto era pesante, l'aria, i gesti, la luce che filtrava a fatica attraverso lo strato di fumo ormai divenuto coltre; e fuori, quell'altra coltre di umidità fluida, miliardi di goccioline invisibili sospese sopra la città e i campi. Pesanti le pedine della scacchiera, e pesanti le carte dai rozzi disegni, e pesanti le oleografie, pesante il caldo, pesante perfino il titolo del giornale locale ancora stampato in caratteri gotici".
Il lettore, travolto da questo accumulo di notazioni dello stesso segno, si trova coinvolto nell'atmosfera oppressiva e non si chiede più se sia la presenza di Terlinck a rendere così soffocante lo spazio circostante o non sia invece quell'aria greve a rendere intollerabili i suoi sguardi, i suoi gesti, le sue rare parole. Avverte che tra quel luogo e quella persona c'è una profonda e misteriosa complicità, che gli arredi, le strade, la nebbia sono naturali espansioni di Terlinck e insieme che quell'uomo scostante è la vivente incarnazione del malefico genio del luogo. E non si sorprende poi se, contro ogni convenzione romanzesca e morale, la fugace apparizione di una luce di bene - i viaggi a Ostenda, la spensierata freschezza di Tina Van Hamme, il vago miraggio di una nuova, festosa esistenza - non risulta salvifica ma perturbatrice; nel mondo chiuso di Simenon non si sfugge al proprio destino, chi si azzarda anche solo a sognare una vita diversa può soltanto perdere il dominio, laboriosamente raggiunto, di quella a cui era e resta condannato.
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