Riassunto:
L'ultimo romanzo, incompiuto, di Kafka, la cui stesura ebbe inizio nel gennaio 1922 (l'autore non ha ancora quarant'anni e ne mancano due alla morte per tubercolosi faringea) e proseguì fino al settembre dello stesso anno. Non esiste una versione definitiva dell'autore che anzi dispose che il manoscritto fosse distrutto. Più che un romanzo "Il castello" si può definire un insieme di frammenti in cui il personaggio K., arrivato a un non-luogo, un misero villaggio immerso nel freddo, tenta di avvicinarsi alla meta, il Castello appunto. Sono frammenti di "vuoto", "stanchezza", "solitudine", presentimenti di una non-vita che attende l'autore nei meandri dell'ultima meta.
Recensione:
«Assalto al confine», la sfida dell’agrimensore K.
Luigi Forte, Tuttolibri - La Stampa
Kafkiano è ormai aggettivo di uso corrente. Sta per grottesco, allucinante, assurdo. Vorrebbe spiegare il mistero ma in realtà ci gira intorno. Perché il mistero, cioè la verità ultima, ci assicura il praghese Franz Kafka, resta tale, inattingibile. Kafkiana, appunto. Ma lo scrittore non demorde. Nei suoi Diari parla di "assalto al confine": è la sfida all'ignoto, il proliferare di interrogativi senza risposta, l'avventura nell'inesplicabile. Quella stessa in cui è coinvolto l'agrimensore K., protagonista dell'ultimo romanzo di Kafka, Il Castello, incompiuto come America e Il processo, e pubblicato postumo dall'amico Max Brod nel 1926. La storia di K. è paradossale fin dal suo arrivo in una fredda notte invernale nel villaggio ai piedi del Castello del conte West-West. Ha ricevuto l'incarico di agrimensore, ma in realtà la sua chiamata si rivela inconsistente. Anzi, egli è invitato ad andarsene dal rappresentante delle autorità, che, dopo una telefonata al Castello, conferma però la sua nomina. Tuttavia al villaggio, come dice il sindaco, non hanno affatto bisogno di un agrimensore e dunque dev'esserci stato un malinteso. Qualcosa non ha funzionato nella corrispondenza fra il villaggio e le cancellerie del Castello; eppure in quegli inaccessibili uffici non si commettono errori. Forse tale chiamata è frutto di un'imponderabile decisione delle autorità comitali; ma anche i messaggi che K. riceve da Klamm, proteiforme segretario della "X sezione", non chiariscono ufficialmente la sua posizione. Tocca dunque a K. dimostrare in qualche modo la propria assunzione; così l'astuzia del Potere lo invischia in una lotta senza fine con le gerarchie dei capi. Il protagonista del Castello non è però una vittima delle autorità, come Josef K. nel Processo, ma piuttosto l'eletto, senza colpa, l'unico loro degno avversario. Tocca ora al romanzo, in forma di parabola e attraverso un complesso apparato simbolico, delineare l'iniziazione all'assurdo, dare voce e corpo alle istanze di una ricerca che scaturisce da motivi autobiografici e si dilata in riflessione religiosa oltreché in una grandiosa e sconvolgente metafora della modernità e dei suoi processi di razionalizzazione. La figura di Frieda, espressione di dirompente sessualità (come i due numi dell'eros, gli aiutanti di K., Arturo e Geremia) e di Amalia, al polo opposto, che per orgoglio si è negata a un funzionario del Castello, e di Olga, sua sorella, vittima dei servi, richiamano, in modi diversi, il dramma di un Kafka incapace di accettare il disordine e l'ebbrezza dei sensi. Nel 1917 aveva rotto il fidanzamento con Felice Bauer e poco prima di iniziare la stesura del Castello nel 1922 si era separato dalla giornalista e traduttrice Milena Jesenská. Non è dunque un caso che la figura femminile diventi cardine del romanzo convogliando in sé l'ambiguità dell'eros: legato al caos e alla vertigine, ma anche sottoposto alla legge del Castello. E chi, come Amalia, vi si sottrae, conosce solo, al pari di Kafka, solitudine ed esclusione dalla comunità. E' il peccato di orgoglio, l'esaltazione della propria innocenza che pretende di giustificare lo smarrimento e l'esilio, la difesa inutile della propria libertà e individualità. Sullo sfondo echeggia anche la consapevolezza dell'ebreo assimilato Kafka che si sente sradicato, rimasto fuori - annota nel diario - come Mosè dalla terra di Canaan. Non gli resta che interrogare, come fa il messaggero Barnaba che sale dal villaggio al Castello cercando un contatto con le autorità, sperando di conseguire certezze e risposte. Barnaba è la voce della poesia, l'illusione che essa possa essere un tramite alla verità. Ma proprio la scrittura rappresenta per Kafka, funzionario dell'"Istituto d'assicurazione per gli infortuni sul lavoro", lo spazio dell'esilio e della colpa. Nel Castello, pungente caricatura del mondo borghese e dei suoi apparati, K., questo nuovo Faust, come l'ha chiamato Max Brod, fa un passo ulteriore: dà voce al bisogno di un radicamento in un focolare, in una comunità, guarda con amore alla quotidiana verità del villaggio. E tuttavia finisce per restarvi fuori, in attesa di risposte, con caparbia e assurda consapevolezza: "Io non ho speranza di vittoria - si legge in un suo frammento - e la lotta non mi dà gioia in sé, ma solo perché è l'unica cosa che si ha da fare".
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